Quale futuro per i richiedenti asilo di Mineo?

Il mega CARA di Mineo più che un centro di accoglienza è un centro di detenzione in cui circa 2000 richiedenti asilo di diversi paesi vivono segregati tra le montagne. 3 minuti di telefonate al mese e 5 minuti di connessione internet, senza tv né giornali. Nessuna attività ricreativa e culturale, pochi corsi d’italiano, sovraffollati e male organizzati. I mediatori culturali si contano sulla punta delle dita, mancano del tutto percorsi di integrazione. Fuori dal mondo, per gli immigrati il contatto più vicino con la popolazione locale è a 11 km dal CARA, cioè a Mineo. 22 km a piedi – andata e ritorno – o, per i più “abbienti”, con la navetta a 2 euro. Peccato che soldi gli immigrati non ne hanno e per quasi tutti la scarpinata è troppo pesante, e allora non gli resta che ammazzare il tempo nel centro dove le lunghe file per i pasti scandiscono le monotone giornate. Nel frattempo cresce l’angosciante attesa da cui dipende il loro avvenire, quella del permesso di soggiorno. Fino a un mese fa questa attesa sembrava davvero infinita a causa dei tempi lentissimi della Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale. Al ritmo di dieci audizioni alla settimana, la permanenza nel CARA sarebbe potuta durare persino tre anni. Grazie alle proteste degli immigrati (tra cui tre blocchi stradali della Catania-Gela) e alle denunce della Rete antirazzista catanese, la situazione sembra oggi finalmente sbloccata. Le richieste d’asilo esaminate settimanalmente sono passate da 10 a 60-80. Una vera svolta! Purtroppo però, insieme ai nuovi ritmi galoppanti, i dinieghi si sono moltiplicati vertiginosamente. A detta dei migranti, più del 50% delle domande sono state ad oggi bocciate e molti rifiuti non trovano per loro una reale giustificazione. A volte, concernono in blocco tutti coloro che provengono da una stessa regione, come se non esistessero i singoli casi. Perché quasi tutti i pakistani provenienti dal Punjab hanno avuto il rigetto? Eppure il Punjab, a cavallo tra l’India e il Pakistan, è una regione calda, scossa da violente agitazioni e attentati. Basti pensare che lo scorso gennaio il governatore del Punjab pakistano, Salman Taseer, è stato assassinato per la sua politica liberale, invisa soprattutto ai musulmani. Quali rischi per la loro vita comporterebbe il rimpatrio? Dal Pakistan spostiamoci in Africa… Per esempio… quale potrebbe essere la sorte di Diatou, di origine senegalese, se la commissione dovesse rifiutare la sua domanda? Sono passati dieci anni da quando Diatou abbandonò insieme al padre il villaggio natale, Nguer, a causa di una faida politico-familiare che aveva portato all’assassinio di sua madre. Si spostò quindi a Darou Salam, ma anche qui fu costretto a scappare; si rifugiò in Mali dove restò tre anni e poi altri tre li passò in Algeria dove, a seguito di un attentato in cui rischiò la vita, decise di andare in Europa passando per il Marocco, ma non ci riuscì. Dopo Settat fu la volta della Libia, ma nel 2011, come tanti, scappa in Italia. Quale si può considerare il suo paese? Diatou vive nell’angoscia del rigetto della sua domanda e infatti termina così il suo racconto: “Io non ho più nulla dietro di me, sono senegalese solo sulla carta, non saprei dove andare… Là dove sono cresciuto non ci posso tornare perché non sono tollerato da chi comanda. Il problema non sono le difficoltà economiche, ho bisogno di una vita libera senza l’angoscia di essere picchiato o torturato. Questa libertà non l’ho mai conosciuta. Se mi rispediscono in Senegal per me è finita”.
Sonia GiardinaI Cordai (luglio – agosto)