MOAS, MSF e Sea Watch: ricerca e soccorso indipendenti nel post-Mare Nostrum
di Paolo Cuttitta (Vrije Universiteit Amsterdam). Mediterranean Hope -Se il 2014 è passato alla storia come l’epoca di Mare Nostrum e dell’intervento umanitario statale (e militare) finalizzato al salvataggio delle persone in mare, il 2015 sarà ricordato per l’esplosione dell’iniziativa non statale (e civile) in tale campo.
In questa estate di traversate, infatti, ben tre diversi soggetti non governativi stanno svolgendo, in modo determinante, attività di ricerca e soccorso delle imbarcazioni dirette verso il territorio italiano. Si tratta di MOAS (Migrant Offshore Aid Station), di MSF (Medici Senza Frontiere) e di Sea Watch.
Non dobbiamo, innanzitutto, confondere questi tre soggetti con i tanti altri attori privati che finiscono spesso per contribuire a operazioni di salvataggio quando, trovandosi nei pressi di imbarcazioni in difficoltà, sono invitati dalle autorità a prestare soccorso: nel 2014 ben 30.000 persone sono state tratte in salvo da mercantili o altre imbarcazioni private. In tali casi l’intervento dei privati è frutto del caso. Va inoltre ricordato che la sostanziale inadeguatezza strutturale delle navi commerciali a svolgere operazioni di soccorso ha sortito, più di una volta, effetti mortali. Quelli di cui parlo, invece, sono soggetti non statali che pongono in essere vere e proprie missioni stabili di ricerca e salvataggio, utilizzando imbarcazioni appositamente scelte e attrezzate per la ricerca e il soccorso.
I primi sono stati Christopher e Regina Catrambone, una coppia italo-statunitense residente a Malta. Sull’onda dell’emozione per la visita del papa a Lampedusa e per la strage del 3 ottobre 2013, i due hanno deciso di impiegare il proprio patrimonio personale per armare una nave di 40 metri, la Phoenix, equipaggiandola di tutto il necessario per le operazioni di soccorso (compresi due droni per la fase di ricerca, due gommoni veloci per il salvataggio e una clinica per le cure immediate). La missione del 2014 è cominciata a fine agosto per concludersi a fine ottobre con un bilancio di circa 3.000 persone salvate. Dopo una sosta di sei mesi, servita anche per raccogliere le necessarie donazioni in forma sia di denaro, sia di apparecchiature (tra tutte spiccano i 180.000 Euro versati dal magnate tedesco Jürgen Wagentrotz), MOAS ha ripreso le attività operative a maggio di quest’anno. Un’importante novità del 2015 è la collaborazione con MSF, che presta alla Phoenix il proprio personale medico. La nave, in questi due mesi e mezzo di interventi, ha già soccorso oltre cinquemila persone.
MSF, contestualmente, ha deciso di intervenire anche in modo autonomo, allestendo altre due navi. Il 9 maggio ha avviato le attività di ricerca e soccorso la Bourbon Argos (26 i membri dell’equipaggio), il 13 giugno la Dignity I (50 metri di lunghezza e un equipaggio di 18 persone). Sono già 5.500 le persone soccorse dalle due navi di MSF in questi mesi.
La Sea Watch è l’ultima arrivata. Come nel caso di MOAS, si tratta di un’iniziativa promossa da privati cittadini (in questo caso tedeschi) che hanno deciso di investire i propri soldi, il proprio tempo e le proprie energie per salvare vite umane. Harald Höppner, commerciante all’ingrosso berlinese, è il principale artefice del progetto. Una volta acquistata con i propri risparmi una barca di 21 metri, Harald e gli altri compagni di avventura hanno raccolto, grazie a donazioni private, i soldi necessari per garantire l’operatività del progetto almeno per quest’anno. L’equipaggio è composto interamente da volontari che si alternano, otto per volta, in turni settimanali. La Sea Watch, di stanza a Lampedusa, è da lì partita il 20 giugno per la prima spedizione, durante la quale ha esclusivamente fornito supporto ad altre navi, contribuendo al salvataggio di circa mille persone. A luglio, nella seconda spedizione, la Sea Watch ha invece condotto sei interventi a beneficio di 594 persone.
Dal punto di vista operativo c’è una differenza essenziale tra le imbarcazioni di MOAS e MSF, da un lato, e la Sea Watch, dall’altro. Le prime sono vere e proprie navi, capaci di ospitare anche centinaia di persone alla volta. In genere esse si dirigono, su indicazione delle – o comunque in accordo con le – autorità italiane, lì dove risultano trovarsi imbarcazioni in difficoltà (per lo più individuate in seguito agli SOS lanciati con i telefoni satellitari dagli stessi passeggeri). Poi, una volta effettuato il salvataggio, esse trasbordano su una nave militare italiana o di Frontex le persone soccorse, oppure le conducono esse stesse nel porto indicato dalle autorità italiane. L’ultimo intervento della Bourbon Argos – che ha dovuto navigare tre giorni, dal 15 al 18 luglio, intorno alla Sicilia prima che fosse chiarito dove sbarcare le quasi 700 persone a bordo, data la mancanza di posti nelle strutture di accoglienza dell’isola – testimonia di alcune delle difficoltà cui possono andare incontro le navi indipendenti di ricerca e soccorso, ma al tempo stesso conferma che MOAS e MSF svolgono attività operative sostanzialmente analoghe – escluse quelle di polizia e di intelligence – a quelle svolte da Frontex e dalle autorità italiane.
Diverso è il caso della Sea Watch. Quest’ultima, infatti, è troppo piccola per accogliere, in condizioni di sicurezza, più persone rispetto ai membri dell’equipaggio. Per questo la Sea Watch, una volta raggiunta un’imbarcazione in difficoltà, attende l’arrivo di altre navi – siano esse di MOAS, di MSF, di Frontex, delle autorità italiane ovvero mercantili di passaggio – ove trasbordare i passeggeri. Nel frattempo l’equipaggio si limita a fornire ristoro e assistenza medica, e, se necessario, impiega le sei scialuppe di salvataggio (ciascuna capace di accogliere 65 persone) di cui è dotata la Sea Watch per mettere provvisoriamente in sicurezza i naufraghi.
Pertanto la Sea Watch, a differenza delle altre tre navi indipendenti, non è mai impegnata nel trasporto verso la terraferma delle persone soccorse, e dunque non deve mai abbandonare il campo d’azione (se non per tornare alla base di Lampedusa per i cambi di turno e le normali pause tecniche), e può perlustrare stabilmente la zona a ridosso delle acque territoriali libiche alla ricerca di imbarcazioni.
È così che, nella seconda settimana di luglio, l’equipaggio della Sea Watch – mentre l’area rimaneva sguarnita per la contemporanea assenza di tutti gli altri mezzi – ha potuto individuare quattro delle sei imbarcazioni assistite e 424 delle 594 persone salvate durante la seconda spedizione. Dice il comandante Ingo Werth: “Gran parte delle imbarcazioni da noi individuate non aveva telefono satellitare e non poteva perciò chiamare i soccorsi. Queste persone possono essere salvate solo se si cerca in modo attivo”. Il concetto è ulteriormente chiarito da Harald Höppner: “Se non ci fossimo stati noi a individuare questi barconi, chissà cosa sarebbe successo!”.
Oltre che sul piano operativo, alcune differenze tra i tre soggetti non governativi si rilevano sul piano comunicativo. MOAS, per esempio, intende mantenere un profilo di neutralità, come emerge dalle parole del direttore Martin Xuereb: “Dobbiamo tenere la politica separata dalle attività di ricerca e soccorso. Salvare vite umane deve stare in cima all’agenda”. MSF, invece, tiene fede alla propria tradizione di organizzazione umanitaria che non si fa scrupolo – anzi, si propone esplicitamente – di interrogare le cause delle emergenze nelle quali si trova a intervenire, e di chiedere conto alle autorità politiche di eventuali responsabilità. Nella fattispecie MSF chiede “un ripensamento radicale delle politiche migratorie” poiché quelle attuali “continuano a spingere le persone verso viaggi lunghi e pericolosi, nelle mani dei trafficanti”. La strada la suggerisce Harald Höppner di Sea Watch, che finora pare essere la più esplicita tra le tre organizzazioni: “Per questa gente bisogna finalmente creare vie regolari di ingresso nell’Unione Europea: qualsiasi altra cosa non servirà a cambiare la situazione. Finché la gente sarà costretta a salire sui barconi, le tragedie continueranno”. E, pur rallegrandosi dell’ottima cooperazione con le autorità italiane, Höppner – di fronte alla solitudine nella quale la Sea Watch si è trovata a operare in fase di ricerca – domanda: “che ne è dei finanziamenti per la missione Triton di Frontex, triplicati dopo la strage di aprile e destinati al salvataggio? Dove sono le loro navi?”
Al di là delle opinioni espresse, ciò che l’operato di questi soggetti fa comunque emergere con chiarezza è l’assoluta inadeguatezza sia delle politiche migratorie europee, che costringono le persone a rischiare la vita, sia del sistema europeo di ricerca e soccorso in mare, che non solo impone l’intervento suppletivo di soggetti volontari non statali, ma poi, come dimostra il già citato caso della Bourbon Argos, finisce a volte anche per intralciarne l’operato.
Sarà interessante seguire l’evoluzione delle relazioni tra questi soggetti (senza dimenticare il Watch the Med – Alarmphone, un’altra iniziativa non governativa, che offre una hotline a chi affronta la traversata, e si occupa poi di verificare che le autorità intervengano adeguatamente e tempestivamente su ogni caso segnalato), anche per vedere se e in che misura la crescente presenza di operatori indipendenti nel Mediterraneo potrà non solo migliorare le capacità di ricerca e soccorso ma anche far sì che l’Italia e l’Europa giungano a quel radicale ripensamento delle politiche migratorie auspicato da Höppner. Intanto, il fondatore di Sea Watch promette: “Finché le cose non cambieranno noi staremo qui e continueremo, nei limiti delle nostre possibilità, a salvare persone”.