Migranti, un nome ai “desaparecidos del Mediterraneo”
Si chiama “Mediterranean Missing” il progetto realizzato dall’università di York, dalla City University di Londra e dall’Oim, che analizza le buone pratiche e le criticità nel processo di identificazione delle salme. Dall’inizio dell’anno già 3600 persone sono morte in mare. “Una catastrofe umanitaria invisibile che merita dignità”
E’ una vera e propria strage silenziosa, che dall’inizio ha già fatto 3500 vittime, 6600 se si contano i decessi dal gennaio 2015. Donne, uomini e bambini, in fuga verso un futuro migliore che hanno perso la vita in mare tentando di raggiungere l’Europa. E che oggi rappresentano i nuovi “desaparecidos del Mediterraneo”. I loro corpi sono stati tumulati in tombe senza nome nei cimiteri del Sud d’Italia. Le loro famiglie dall’altra parte del Mediterraneo non sanno se piangerne la morte o aspettare il loro ritorno. Ma come viene gestito il riconoscimento? Chi si ne occupa e come? Il tema è al centro del progetto Mediterranean Missing (Migranti dispersi e deceduti ai Confini dell’Ue nel Mediterraneo: bisogni umanitari e compiti dello Stato) condotto dal centro per lo studio applicato dei diritti umani dell’università di York, dalla City University di Londra e dall’Oim. La ricerca, presentata oggi alla Camera, si è concentrata innanzitutto sulle modalità in cui vengono gestite le salme, sul contesto legale e sulle pratiche per assicurare la loro identificazione. La relazione si basa su 27 interviste semi strutturate con i rappresentanti degli enti locali e nazionali, oltre che con le organizzazioni della società civile.
Un’invisibile catastrofe umanitaria. Il progetto è nato per restituire innanzitutto dignità alle tante, troppe stragi che si consumano quotidianamente in mare, spiega Simon Robins, ricercatore associato all’Università di York. “Abbiamo visto migliaia di persone morire nelle frontiere sud del Mediterraneo. Dall’anno scorso siamo arrivati al numero record di 6600 morti. Questa è una vera e propria catastrofe umanitaria non visibile – sottolinea -. Quando l’aereo della Malesia airlines è scomparso c’è stata una grandissima attenzione mediatica. Mentre vediamo scomparire un numero di migranti altissimo, pari a cinque jumbo jet, ma non c’è alcuna copertura giornalistica e politica. Gli Stati europei non affrontano il tema delle identificazioni efficacemente, mentre noi abbiamo voluto analizzare e mettere in risalto quali sono i punti da migliorare e quali le buone pratiche da evidenziate”.
Solo numeri sulle tombe in Sicilia. Responsabile del progetto è una giovane ricercatrice italiana, Giorgia Mirto. “Girando tra i cimiteri in Sicilia si vedono tombe sulle quali sono incisi dei numeri non dei nomi – afferma -. I numeri svuotano l’idea di persona, mentre bisogna sempre ricordare che dietro ogni numero c’è una persona, c’è una famiglia che sta vivendo un lutto, che c’è chi non sa se piangere una scomparsa o sperare nel ritorno dei suoi cari. I migranti che muoiono dimenticati sono un parte dello stillicidio continuo di una generazione – aggiunge – che invece avrebbe diritto a vivere e a venire nel nostro paese senza rischiare la vita”. Il progetto si è concentrato, in particolare, sulle procedure stabilite in Sicilia per il riconoscimento delle salme. Come sottolineano i ricercatori, uno spartiacque importante è stato il naufragio a largo di Lampedusa del 3 ottobre 2013, in cui persero la vita 387 persone. Quella strage (di cui ricorre l’anniversario tra qualche giorno), cambiò la percezione del fenomeno che diventò un disastro di massa e portò all’attivazione di diversi protocolli, e anche delle prime buone pratiche.
Angelo, l’ispettore di polizia che cerca le famiglie dei dispersi su Facebook. “In questi anni c’è stato uno sforzo enorme da parte di alcune persone su questo tema, dai rappresentanti dello stato ai medici legali – aggiunge Mirto – fino ai semplici ispettori di polizia”. Uno di questi è Angelo Milazzo, che negli ultimi anni, dal suo ufficio della procura si è fatto in quattro per riuscire a dare un nome alle persone scomparse. Per riuscirci ha anche realizzato una pagina Facebook, in collaborazione con la comunità siriana, in cui cercava di contattare le famiglie dei dispersi. Questa iniziativa personale ha permesso l’identificazione di 22 cadaveri su 24.
Cosa si può fare? Tra le buone pratiche il progetto Missing migrant sottolinea il ruolo centrale dell’ufficio per le Persone scomparse affidato al commissario straordinario Vittorio Piscitelli, che si è occupato di tre naufragi avvenuti il 3 e 11 ottobre 2013 e il 18 aprile 2015. In questi casi l’ufficio ha rilasciato diversi protocolli in cui venivano proposte anche linee guida per gestire situazioni di questo genere. Questi documenti hanno permesso, in particolare, di attivare forme di cooperazione tra gli attori coinvolti nel riconoscimento delle salme. Per questo, secondo i ricercatori, il ruolo dell’ufficio andrebbe esteso, oltre i 3 casi citati. Ma soprattutto dovrebbe diventare un’istituzione coordinatrice per realizzare standard uniformi su tutto il territorio nazionale. L’altra criticità, evidenziata nel rapporto, riguarda il ruolo delle famiglie dei dispersi, che dovrebbe essere centrale: non solo perché “va riconosciuto il loro ruolo in queste tragedie” ma anche perché questo potrebbe facilitare il lavoro degli esperti nella comparazione dei dati. Ad oggi, invece, sono pochi i dati ante mortem ricevuti dai parenti delle vittime. In particolare, i ricercatori pongono l’accento sul ruolo delle indagini. Dopo un naufragio, infatti, i sopravvissuti vengono ascoltati soprattutto al fine di perseguire a fini penali gli scafisti, mentre pochi sono i dati raccolti per riuscire a capire chi era sulla nave, da dove veniva, se viaggiava da solo o con la famiglia. Infine, servirebbe un’architettura transazionale per la gestione dei dati sui migranti dispersi: banche dati condivise tra gli stati europei per riuscire finalmente a dare un nome ai troppi morti senza nome del Mediterraneo.
Eleonora Camilli