Migranti, primi mesi del sistema hotspot in Sicilia. «Cernita sommaria di chi può entrare in Europa»
da Meridionews
di Andrea Gentile
L’inverno è mite sul Mediterraneo fortunatamente mai in tempesta. Gli uomini e le donne in fuga da guerre e povertà continuano ad imbarcarsi dalla Libia, in direzione nord, nel tentativo di raggiungere la Sicilia. Pozzallo è, dopo Lampedusa, il primo punto d’approdo. Sabato mattina, 105 migranti (63 uomini, 28 donne e 14 minori) sono stati trasbordati dalla nave norvegese Siem Pilot. In una settimana, più di cinquecento migranti sono arrivati nel porto ibleo. Che si sommano ai 89 del sabato precedente e ai 367 del mercoledì.
Nel 2015 Pozzallo è stato luogo di 104 approdi per oltre 16mila migranti; il quarto porto in Italia per quantità di persone, il terzo per numero di sbarchi. Nel primo mese del 2016 sono arrivati 1.207 migranti, in quattro sbarchi concentrati nell’ultima settimana. Sempre a gennaio, Pozzallo è diventato uno dei tre hotspot attualmente in funzione, come stabilito dalla linee guida europee. Anche per gli ultimi arrivati sono scattate subito le operazioni di identificazione e fotosegnalamento, che rappresentano uno degli obiettivi dell’approccio hotspot, «per cui nessuno deve poter lasciare senza essere stato correttamente identificato e registrato», come ha dichiarato il coordinating officer di Frontex, Miguel Angelo Nunes Nicolau. Un controllo che si è fatto più rigido ma che continua a mostrare delle falle, considerato che tra gli arrivi dell’ultimo trimestre del 2015, in media, solo quattro migranti su cinque sono stati schedati. E per questa inadempienza, nei mesi scorsi, l’Italia è stata accusata dagli organismi europei.
Nunes Nicolau ha spiegato alla commissione parlamentare d’inchiesta sul sistema di accoglienza del 13 gennaio, che «ci sarà un’unica procedura definita. I migranti arrivano a un punto X, vengono condotti ad un punto Y», per procedere al completamento dell’identificazione. È inoltre prevista «l’acquisizione forzata delle impronte digitali», attraverso «diverse fasi: una di consulenza, una di tentativi e, se la persona non collabora, può essere portata in un altro centro, dove viene effettuato un altro tentativo, fino a quando non si raggiunge l’obiettivo. L’uso della forza è naturalmente l’ultima risorsa». Una pratica violenta che però sembra contrastare l’ordinamento legislativo nazionale e la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. Il trasferimento è già consueto: alla fine di gennaio 360 migranti sbarcati a Pozzallo sono stati portati a Trapani; stessa sorte è toccata a un numero imprecisato di quelli arrivati mercoledì. Il centro trapanese di contrada Milo può ospitare circa 400 persone, è un ex Cie (centro di identificazione ed espulsione), diventato hotspot dalla fine di dicembre. Lo spostamento è stato conseguente all’indisponibilità del centro di accoglienza ibleo e, probabilmente, ha anche favorito l’opera d’identificazione. La procedura forzata esercita infatti pressione psicologica sui migranti, nei casi di iniziale rifiuto al rilascio delle impronte digitali. Alcuni infatti, già allo sbarco sono a conoscenza delle disposizioni del trattato di Dublino, che li obbligano al trattenimento iniziale all’interno del primo paese europeo di approdo, ovvero l’Italia.
Pochi giorni addietro la Commissione straordinaria per la tutela dei diritti umani del Senato ha pubblicato il rapporto sui Centri di identificazione ed espulsione in Italia. Nel documento trovano spazio anche alcune lapidarie considerazioni: «Il bilancio del nuovo approccio hotspot a quasi cinque mesi dall’avvio, analizzando i dati e quanto emerso nel corso della visita, non può che considerarsi deficitario». La maggiore difficoltà, secondo la commissione presieduta da Luigi Manconi, è rappresentata dall’identificazione certa. «Il rischio è che il tempo a disposizione, unitamente all’ingente mole di lavoro, incidano negativamente su tali procedure portando a una cernita sommaria di chi può e chi non può fare ingresso in Europa, basata su automatismi più che su attente valutazioni che tengano conto degli elementi soggettivi e della storia individuale della persona sbarcata». Ciò costituirebbe una palese violazione dei diritti dell’individuo.
«Diversi profughi vengono interrogati già lungamente in banchina; alcuni, come spesso accade, messi a sedere a terra separati dagli altri – racconta Lucia Borghi, operatrice dell’associazione Borderline – la prima preoccupazione degli agenti è quella di raccogliere informazioni, avere dati e numeri da riportare, non certo quella di dare, a chi è reduce da un viaggio potenzialmente mortale, la possibilità di tranquillizzarsi». L’attivista descrive un quadro non proprio accogliente: «Durante lo sbarco ai migranti non è nemmeno consentito recarsi in bagno, poiché ancora oggi mancano i bagni chimici sulla banchina». Attraverso gli interrogatori iniziali si raccolgono notizie riguardo la provenienza e le motivazioni della migrazione. E sono inoltre necessari per individuare chi era al timone delle imbarcazioni.
Nelle scorse settimane era stato abbozzato un dibattito sulla possibile depenalizzazione del reato di immigrazione clandestina. A dicembre la commissione Giustizia della Camera proponeva la trasformazione in illecito amministrativo, per «consentire alla magistratura di interrogare i soggetti entrati in Italia clandestinamente senza considerarli indagati, ma come vittime del reato di traffico di esseri umani». Il reato di immigrazione clandestina, secondo il procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo Franco Roberti, è solo «un ostacolo alle indagini». Il dibattito è stato però castrato dal rinvio del premier Matteo Renzi, concorde con il ministro dell’Interno Angelino Alfano nell’evitare di «trasmettere all’opinione pubblica messaggi negativi per la percezione di sicurezza».