Dopo lo sbarco: restare in Italia tra lungagini burocratiche e trasferimenti

Ormai ogni giorno leggiamo notizie di sbarchi e arrivi di
migranti sulle coste siciliane e non solo. Questi episodi vanno monitorati ed
analizzati con accuratezza,e soprattutto considerati come una finestra su ciò
che li precede e su quello che succede dopo che su di essi si spengono i
riflettori. Seguire il percorso dei migranti una volta scesi sulla terraferma
non è semplice, anche per quelli che fanno richiesta di protezione
internazionale e vengono quindi inseriti nel sistema di accoglienza e protezione.

L’ormai perenne stato d’emergenza genera infatti situazioni molto precarie per
quanto concerne la sistemazione dei richiedenti, caratterizzata da frequenti
spostamenti spesso decisi in base ad esigenze che non sembrano essere quelle di
velocizzare i tempi per la conclusione dell’iter della richiesta d’asilo, né
per facilitare l’inserimento dei migranti nel nostro Paese. Nei loro continui
trasferimenti però, i migranti riescono talvolta comunque ad instaurare delle
relazioni con gli abitanti dei luoghi in cui sostano, lasciano contatti
telefonici, tessono reti piccole ma resistenti, a seconda della fortuna e delle
possibilità.

Seguendo uno di questi deboli fili, decido di recarmi in due
strutture di prima e seconda accoglienza situate a Vittoria, piccolo centro del
ragusano, abitato già da parecchi anni da numerosi cittadini nordafricani e
dell’est Europa, lavoratori nelle serre dell’interland.
Visito per primo il centro Sprar per minori della coop. Nostra Signora di
Gulfi
, che già gestisce a Chiaramonte Gulfi due comunità per minori non
accompagnati e uno Sprar per richiedenti asilo adulti. Sono accolta dalla
responsabile, Noemi, che mi fa visitare la struttura, una casa su due piani nel
centro città, spiegandomi che il centro è attivo come Sprar dall’aprile 2014, e
da allora ospita 8 ragazzi, dai 12 ai 17 anni,provenienti da Gambia, Senegal ,
Guinea Bissau, Ghana ed Egitto, dei quali la maggior parte è arrivata a giugno
con l’ultimo giro di smistamenti. Ed è proprio la questione dei trasferimenti
che ritorna in primo piano quando conosco alcuni ospiti. In quanto minori,
alcuni di loro prima collocati in centri di altre province hanno
necessariamente dovuto cambiare tutore una volta arrivati a Vittoria. Ciò ha
fatto sì che, da tre mesi, due degli otto ragazzi siano ancora in attesa della
decisione del giudice cautelare, costretti ad assistere al congelamento della
loro richiesta di protezione internazionale, che non potrà proseguire con
l’intervista in Commissione finchè non avranno un tutore delegato a seguirli.
Anche l’unico assistente sociale del comune, avendo in carico molti ragazzi,
fatica a vedere i migranti con una certa frequenza. “ I ragazzi seguono giornalmente lezioni di
alfabetizzazione qui in casa, e tra poche settimane inizieranno anche a seguire
i corsi serali al centro di formazione per adulti. Stiamo attivando delle borse
lavoro e puntiamo ad una loro responsabilizzazione anche nella gestione del
centro; con l’aiuto degli operatori, puliscono a turno gli spazi comuni e
soprattutto cucinano da soli i loro pasti”, dice Noemi. M. sta cucinando riso
ascoltando musica reggae mentre altri stendono i panni o comunicano in internet
con i loro amici o familiari. “A volte sono talmente esasperati per la lentezza
della burocrazia che minacciano lo sciopero bianco, cioè niente studio. Come
dargli torto?” conclude Noemi, dando un altro spaccato di un sistema in perenne
emergenza che non si deve più giustificare.

Un ambiente decisamente più movimentato mi aspetta nel
pomeriggio, quando visito i due centri di prima accoglienza della cooperativa sociale
Area
, situati a pochi metri dalla monumentale villa comunale. La presidente
Matilde Farina mi presenta agli operatori e agli ospiti, una ventina di
migranti in tutto, alloggiati in due diversi appartamenti. La cooperativa ha
attivato questo servizio da novembre 2013, formando gli operatori che in
precedenza si occupavano di anziani e persone disabili e con disagi psichici.
Ora si avvale anche della collaborazione di un mediatore culturale ed insegnanti
addetti all’alfabetizzazione.

Nel primo appartamento incontro B., originario
del Gambia. Parla lentamente ma segue i nostri discorsi. “il problema non è
capire, ma parlare l’italiano! Sono arrivato a Pozzallo in giugno, poi da lì
sono passato qui, ma non ho ancora i documenti. Sto cercando di imparare
l’italiano, ma senza i documenti cosa altro posso fare?” Altri suoi compagni hanno
ricevuto il diniego dalla Commissione e ora hanno un permesso come ricorrenti,
ma necessitano di una proroga per poter rimanere ancora in questa struttura, e
nel frattempo nuovi migranti continuano ad arrivare, facendo aggiungere posti
letto improvvisati agli operatori che non riescono a lasciarli sulla strada.
“In questa zona è facile cadere nei giri dello sfruttamento, del lavoro a
cottimo per pochi euro al giorno”, mi dice Matilde. In una stanza all’ultimo piano della casa
incontro anche tre ragazzi originari del Bangladesh che parlano poco inglese e
si limitano a sorridere; dividono la stanza con un ragazzo maliano, con cui
hanno instaurato una pacifica convivenza. A giorni saranno comunque nuovamente
trasferiti in un altro centro di prima accoglienza.

Sono tutti Bengalesi invece
gli ospiti del secondo appartamento che conosco poco dopo. Arrivati a Pozzallo
il 5 agosto con lo sbarco dei 957 migranti (finora il più grande registrato nel
piccolo porto), sono stati spostati da Comiso a Vittoria solo sabato scorso.
Appena ci vedono si riuniscono tutti in soggiorno, faticando quasi a trovare
posti a sedere: sono in 14, quattro in più di quanti potrebbero stare nella
struttura, ma anche in questo caso la situazione emergenziale unita alle
lungaggini burocratiche per i futuri trasferimenti ha portato questo momentaneo
sovraffollamento. Anche nelle camere da letto si fatica quasi a camminare
“troppo piccolo, questo posto è troppo piccolo per tutte queste persone”, dice
Z. Soltanto tre di loro parlano e capiscono l’inglese, prestandosi come
interpreti per gli altri, informati
comunque della loro situazione anche da un mediatore bengalese chiamato sabato
dalla cooperativa. “A Comiso eravamo in tantissimi. 500/550 persone.” Mi dice
A.: “siamo arrivati tutti con la stessa imbarcazione dalla Libia, ma proveniamo
da zone diverse del Bangladesh. In Libia sono rimasto circa due mesi, stare di
più ora è troppo pericoloso”.M. sfoglia un dizionario bengalese/inglese, e
annota poche righe su un quaderno: “vogliamo altri libri per imparare l’inglese
e l’italiano”, chiedono a Matilde altri tre giovani arroccati su un divano.
L’altro giorno hanno fatto una delle loro prime lezioni di italiano con una
collaboratrice del centro: da quando sono arrivati in Italia il loro tempo è
stato scandito solo dagli orari dei pasti. “La prossima volta parleremo in
italiano. A me non interessa l’inglese, ora sono in Italia”, mi confida A.,
salutandomi e dimostrando ancora una volta che i migranti, costretti a pagare
sulla propria pelle le odiose conseguenze della perenne emergenza, sono i primi
che con la loro determinazione ci indicano come superarla.

Lucia Borghi

Borderline Sicilia Onlus