Delegazione LasciateCIEntrare al CARA di Mineo. Visita del 24 agosto.
Il percorso che ci conduce al CARA vede molte case diroccate nei campi.
Secondo alcune testimonianze raccolte da tempo è li che spesso si
prostituiscono le ragazze nigeriane del Cara. Sulla strada incontriamo ragazzi
in bicicletta o a piedi. Si avviano verso i vicini paesi che sono molto
distanti dal centro. Il Cara di Mineo si vede già da lontano. Si riconosce
perché da fuori sembra un quartiere di periferia molto colorato, con villette a
due piani. Uguali a quelle della base di Sigonella che ospita gli ufficiali
americani. E’ chiuso da una recinzione e già da fuori vediamo all’esterno
alcune villette-bazar.
All’interno del CARA diversi migranti hanno una propria
attività di vendita che va dai vestiti ai prodotti alimentari (sarebbe stato
utile, se ce lo avessero permesso, verificare come avvenga la distribuzione
delle case e delle stanze, visto che alcune villette sono diventate dei mini-market).
Tutto questo alimenta un’economia sommersa che da sopravvivenza per alcuni
diventa indebito arricchimento per altri. In realtà il Cara di Mineo è ormai
diventato un vero e proprio paesino, anche a fronte della durata spropositata
delle procedure per il riconoscimento dello status di rifugiato, e dei tempi
ancora più lunghi dei ricorsi in caso di diniego. Ma di un paesino non ha
alcuna struttura pubblica, nè di carattere sociale nè assistenziale.
Arriviamo
con un po’ di anticipo all’appuntamento per poter parlare con alcuni dei
migranti che passeggiano all’esterno della struttura. C’è anche chi fa sport
ogni mattina correndo lungo la superstrada o vicino agli aranceti. Ci sono in
ordine diverse macchine di migranti organizzati che effettuano un servizio di
navetta improvvisato a pagamento per chi vive all’interno del CARA. Alcuni
migranti vanno in bicicletta per recarsi nelle campagne vicine a lavorare a
circa 15 euro al giorno. Non incontriamo donne, fatta eccezione per un’unica ragazza
nigeriana ospite del Cara da circa tre mesi, che aspetta di poter ricongiungersi
al marito che si trova in un CAS della provincia di Caserta, che ha già
ricevuto il permesso di soggiorno; si sono sposati con matrimonio tradizionale
e non hanno alcun documento che attesti la loro unione. La donna ha con sé
esclusivamente un attestato nominativo alquanto anomalo; vi sono infatti
indicati solo nome, cognome, nazionalità e data di nascita oltre che il nome
del Cara. Non è indicata la data di arrivo in Italia, né la frontiera da cui
sarebbe entrata; non ha alcuna carta sanitaria con sé e ci dice che nessuno ce
l’ha.
C’è un
ragazzo bengalese ospite della struttura da poche settimane, in attesa
dell’audizione in commissione. Al Cara di Mineo l’attesa media è di oltre un
anno. Il bengalese ha da poco compiuto 18 anni; è stato trasferito dal centro
della Madonnina di Mascalucia (Ct). E’ arrivato in Italia nell’ottobre del 2014
.
Alcuni ragazzi
con cui ci fermiamo a chiacchierare non hanno l’attestato nominativo, ma solo
una card, senza foto, che attesta l’inserimento nella struttura. Tutti hanno il
“badge” che risulta facilmente cedibile. Per uscire dalla struttura le persone si
affidano ai taxi “etnici” o ad un italiano che passa con una grande
macchina chiedendo 5 euro a tratta.
Incontriamo
un altro migrante che è al Cara da pochi mesi, anche lui trasferitovi dalla
Madonnina, un centro in cui, a suo dire, gli operatori erano molto cattivi. L’unica
cosa che chiede è di essere trasferito, qui non sta bene ma non ci dice perché.
Insiste molto sulla Commissione: sa che qui si aspetta molto e lui vuole andare
in un posto dove l’audizione in Commissione si fa prima; magari in un centro
SPRAR.
Alle 11
circa entriamo al Cara di Mineo. La polizia ci ferma perché non ha ricevuto
dalla Prefettura l’ultima autorizzazione con l’indicazione dei membri della
delegazione. Gli consegniamo la copia che abbiamo con noi, precisando che
l’ultima autorizzazione l’abbiamo ricevuta via mail alle 10:21 della mattina
stessa. Il gestore già informato della nostra visita scambia via e mail informazioni
con l’ufficio di Polizia all’ingresso. Noi aspettiamo. Finalmente ci fanno
entrare. Siamo autorizzati a visitare solo le aree comuni; non possiamo quindi entrare
negli appartamenti. Non possiamo fare né foto né video. Firmiamo un documento
in cui veniamo indicati come “giornalisti”. Ma noi non siamo
giornalisti. Possiamo parlare con le persone solo previa informativa sui motivi
e loro consenso verbale. Negli ultimi mesi alle delegazioni della Campagna
hanno sempre impedito di documentare le visite con immagini.
Veniamo
accompagnati nell’ufficio del direttore. Prima di entrare vediamo una casetta
adibita a “Opportunità”, dove ci sono diversi numeri di telefono con
su scritto “Job”. La responsabile delle risorse umane ci dice che non si tratta
di job ma di workshop (artigianato, computer, ecc.) organizzati per gli ospiti.
Al momento 50 migranti sono stati inseriti in percorsi di tirocinio formativo nell’ambito
del programma regionale “garanzia giovani” (ma i percorsi non sono ancora
iniziati).
Nel Cara
sono attualmente presenti circa 3.100 persone, a fronte delle 3.400 presenze
dello scorso 24 luglio. Il centro ha una
capienza massima per 3.000 persone, ma in emergenza può arrivare fino a 4.000.
Le famiglie presenti sono 40, i bambini sono tutti regolarmente iscritti a scuola
o negli asili nido. Non abbiamo il numero delle donne presenti. La nazionalità
prevalente è quella nigeriana. Non ci sono afghani. Il Cara è formato da 404
villette, all’interno delle quali vengono ospitate sette/otto persone, anche se
alcuni richiedenti asilo all’esterno della struttura ci hanno detto che in
alcune villette abitano anche 20/25 persone. C’è un’equipe che si occupa della
logistica delle case. Dalle abitazioni i migranti sarebbero liberi di spostarsi
senza vincoli. Nonostante nelle abitazioni vi siano i condizionatori, abbiamo
notato diversi migranti con i materassi in spugna posizionati all’esterno delle
case. Chiediamo come mai non abbiamo visto donne in giro, ma solo uomini. Il
responsabile ci risponde che le donne preferiscono restare in casa. Non abbiamo
ovviamente modo di verificare perché non abbiamo autorizzazione ad entrare
nelle singole abitazioni.
Al Cara
lavorano circa 400 operatori, 50 dei quali con funzioni specifiche: 7 legali, 8
assistenti sociali, 10 psicologi e diversi mediatori. All’interno sono presenti
due- tre squadre delle forze dell’ordine, munite di camionette e altri
autoveicoli. All’esterno la struttura è presidiata da militari dell’esercito e
all’ingresso vi sono i carabinieri. Gli operatori legali sarebbero addetti
all’informativa legale ed alla preparazione all’audizione in Commissione. I
ragazzi che però abbiamo incontrato all’esterno ci hanno detto che nessuno di
loro sta preparando niente e che l’informativa l’hanno ricevuta solo una volta,
al loro arrivo al centro. Del resto sette legali per oltre 3000 persone sembra
davvero un numero esiguo. Gli operatori legali del Cara non si occupano degli
eventuali ricorsi, dopo la presentazione dei quali i diniegati potrebbero rimanere
nel Cara “tutto il tempo che vogliono”. Non abbiamo modo di
incontrare alcuno dei referenti legali. Sempre attraverso le interviste
all’esterno della struttura veniamo a sapere che i legali vengono pagati circa
cento euro, ma non ci viene comunicato se sia un unico referente o chi sia.
Dall’ente gestore ci viene consegnata una copia di un opuscolo informativo sui
diritti all’interno del centro scritto in molte lingue dallo Staff dell’area
legale del Nuovo Cara di Mineo, un opuscolo ben costruito.
I
soggetti vulnerabili verrebbero collocati in abitazioni dedicate. Al momento
sono presenti al Cara i migranti “scampati” al naufragio del 19 aprile
per i quali sarebbero previste attività a sé stanti; questo gruppo sarebbe già
stato sentito dalla Commissione territoriale. Chiediamo perché non siano stati spostati
altrove, magari in un centro Sprar e l’ente gestore abbia segnalato la loro
presenza al Servizio Centrale.” Loro non vogliono andare via da qui. Si
trovano bene!” così risponde il responsabile Maccarrone, mostrandoci anche
una lettera degli stessi che esprimerebbero contentezza. Andiamo oltre,
chiedendo se negli altri casi di persone vulnerabili si adotti la stessa prassi.
A detta dell’ente gestore essendoci al Cara un’equipe preparata di psicologi e
mediatori per i casi vulnerabili, evidentemente non c’è bisogno di chiederne lo
spostamento. Per circa 80 persone sarebbe stata fatta richiesta di
trasferimento presso centri Sprar, ma non sarebbe arrivata alcuna risposta.
I tempi
della Commissione come detto sono lunghi, vanno da un anno ad oltre 14 mesi.
Non si effettua accompagnamento legale in Commissione, nemmeno per i casi
vulnerabili per i quali verrebbero preparate relazioni, quando si evidenzia la
necessità. Non abbiamo incontrato gli psicologi che si occuperebbero di stilare
queste relazioni. Pare che ogni giorno la Commissione visioni 14-15 richieste
in tutto e che lavori dal lunedì’ al venerdì, sia la mattina che il pomeriggio.
Chiediamo
del pocket money, che qui viene erogato sotto forma di pacchetti di sigarette e
basta. Il migrante all’arrivo riceve subito il badge personale; se per tre
giorni non viene usato parte un “alert” sull’eventuale assenza del migrante e
viene bloccata l’erogazione. A questo punto il direttore fa un discorso confuso
sui debiti contratti (da oltre un anno) con non si capisce bene quali grossisti
e poi afferma che l’acquisto delle sigarette e del carburante presso il vicino distributore Esso è legato alla
disponibilità del gestore Silva, l’unico a far credito alla direzione del CARA.
Riguardo al kit di ingresso, ci viene detto che viene dato tutto
l’occorrente senza specificarne il contenuto; avrebbe valore di 90 euro e
comprenderebbe schede telefoniche, tute, ciabatte e scarpe. I migranti ci hanno
riferito di avere ricevuto alcuni vestiti di misure più grandi della loro. Pare
non ci sia un servizio guardaroba attraverso il quale sostituire i propri
vestiti, se rotti o rovinati. Riguardo al rilascio dei documenti, il direttore
ci tiene a sottolineare che è la direzione a sostenere le spese per l’acquisto della
marca da bollo e del bollettino. Sono invece a carico dei migranti le spese
telefoniche e l’eventuale acquisto di un telefonino. Al Cara è presente la connessione
internet esclusivamente all’interno della sala computer, dotata di circa 10 postazioni che i migranti sfruttano a
turno.
Ci
informiamo sui mezzi di trasporto verso il centro abitato di Mineo. E’ presente
un servizio di navette con due autobus da 50 posti che funziona due volte al
giorno. Ci si sale su prenotazione; se resti fuori, non ti puoi muovere o altrimenti
usufruisci dei taxi “etnici” a pagamento o vai a piedi. Le attività di bazar
all’interno del centro prevedono la possibilità di acquistare a credito.
All’interno
del Cara per ogni comunità esisterebbe un rappresentante democraticamente
eletto, con cui i gestori si interfacciano in caso di informazioni e novità. Gli
stessi migranti si denunciano fra di loro in particolare per furti di telefonini.
Il menu
sarebbe scelto con l’ospite. Non vi è un servizio di catering esterno ma un servizio
mensa all’interno. Esistono luoghi di refezione distinti per uomini e per
donne. I cibi tipici dei paesi di origine verrebbero acquistati a Catania.
Esisterebbero 4 linee di distribuzione in cui verrebbero garantiti fino a 5.000
pasti a pranzo e a cena, oltre alla colazione.
A seguito
dello scandalo “Mafia Capitale”, il Cara è stato commissariato; al momento vi
sono amministratori giudiziari, quindi a detta del direttore i problemi
sarebbero finiti. Il Cara partecipa regolarmente a bandi e nuove assegnazioni.
Il direttore conferma che il Cara verrà trasformato a breve in un hub, infatti
da un po’ di tempo non riceverebbero nuovi ospiti.
All’interno
del centro si trova un presidio della Croce Rossa, che si occupa di visite
mediche generali ed è in contatto con i principali laboratori di analisi e di
medicina specialistica. Non si somministrerebbero psicofarmaci se non dietro
prescrizione dello psichiatra di riferimento dell’ospedale di Caltagirone.
Al centro
è attivo il progetto “Eva”, che riguarda le donne vittime di tratta, con cui
vengono portati avanti percorsi di visite mediche anche durante il periodo di
gravidanza. La dottoressa con cui parliamo ci dice che nel centro ci sono stati
aborti solo spontanei. Anche in questo caso non abbiamo accesso alla visione di
cartelle cliniche o altri dati. La dottoressa ci assicura che a tutti migranti viene
rilasciato il tesserino STP di cui la Croce Rossa detiene, comunque, una copia.
In merito all’attribuzione della carta sanitaria e all’iscrizione al SSN afferma
che il problema sarebbe di ordino burocratico e vincolato alla stipula di un
non meglio precisato protocollo fra ASP e Regione. Lamentiamo che diversi
migranti, una volta usciti dal centro non hanno con sé nessuno storico di eventuali
visite ed esami fatti nel corso della loro permanenza al Cara, e chiediamo di
avere un riferimento in caso di necessità, visto che la dottoressa garantisce
la presenza di un archivio. Evidentemente la malattia è segreta anche agli
stessi pazienti. Nel centro dovrebbe essere presente un presidio
dell’associazione MEDU, che purtroppo non incontriamo. Inoltre c’è un Ufficio
Immigrazione, ma non riusciamo ad incontrare nessuno, perché c’è solo un
impiegato. Le domande che vorremmo porre sono anche sulla mancanza di
distribuzione dell’attestato nominativo.
Secondo il
direttore in quella zona non esiste il caporalato, solo qualche
“vecchietto” che si fa aiutare ogni tanto in campagna. Siamo
perplessi. Al momento della nostra visita delle 3.000 persone, molte
probabilmente sono fuori per lavorare. Li abbiamo visti rientrare di sera il
giorno precedente in massa, chi in bici chi a piedi. Carichi di cose. I
migranti parlano di un pagamento di circa 15 euro al giorno. Se chiediamo delle
donne distolgono lo sguardo e non rispondono.
Ci
rechiamo in mensa per vedere come funziona e cosa si mangia. Non abbiamo nulla
da ridire al riguardo. Chiediamo poi di raggiungere l’altra estremità del
campo, dove dall’esterno abbiamo visto migranti distesi su materassi collocati sotto
gli alberi. Ci viene detto che non sanno se possono accompagnarci perché le
disposizioni sono chiare. Ribadiamo che la strada è zona comune e che quindi
vogliamo andarci. Siamo costretti poi per un “presunta paura di
malore” di una delle nostre accompagnatrici a salire su un autobus a 40
gradi e senz’aria per finire il giro.
Ogni
qualvolta avviciniamo, o ci avvicina, un migrante veniamo guardati con sospetto
e ci viene intimato di non fermarci troppo. Cosa spaventa questa gente, al
punto da non permetterci apertamente di fare due chiacchiere in santa pace con
gli ospiti? Cosa nascondono? Usciamo dal centro, scambiamo le ultime
chiacchiere con alcuni migranti sopraggiunti ed andiamo via.
La
sensazione è quella di aver partecipato ad un teatrino ben concertato. Il solo
fatto di non poter parlare con i migranti se non sotto stretta sorveglianza è
vergognoso. Purtroppo i media locali enfatizzano le ispezioni parlamentari e le
visite di giornalisti stranieri solo quando rilasciano dichiarazioni positive,
nonostante il terremoto di Mafia Capitale. Così ci viene nascosta una grossa
fetta di verità su questi luoghi; luoghi che si preferisce restino così come
sono se si continua a permettere che nonostante l’infiltrazione mafiosa
continuino a fornire accoglienza. Ribadiamo ancora una volta che l’unico modo
per capire cosa accade in questi centri sono le visite a sorpresa di
parlamentari ben informati, insieme alla società civile. Allontanandoci vediamo
ancora migranti in bicicletta, di ritorno dalle campagne del “buon povero
vecchietto”. E le donne? Quando torneranno? E “dove saranno mai
andate”?
La delegazione: Alfonso Di Stefano, Barbara Crivelli, Gaetana Poguisch, Elio Tozzi, Chiara Denaro,
Agata Ronsivalle, Yasmine Accardo