“Chi specula sui profughi”. Inchiesta dell’Espresso sulla gestione dell’emergenza Nord Africa
di Michele Sasso e Francesca Sironi
Da l’Espresso. Un miliardo e 300 milioni: è quello che ha speso finora lo Stato per assistere le persone fuggite da Libia e Tunisia. Un fiume di denaro senza controllo. Che si è trasformato in business per albergatori, coop spregiudicate e truffatori.
Erano affamati e disperati, un’ondata umana in fuga dalla
rivoluzione in Tunisia e dalla guerra in Libia: fra marzo e
settembre dello scorso anno l’esodo ha portato sulle nostre coste
60 mila persone. Profughi, accolti come tali dall’Italia o emigrati
in fretta nel resto d’Europa: solo 21 mila sono rimasti a carico
della Protezione civile. Ma l’assistenza a questo popolo senza
patria è stata gestita nel caos, dando vita a una serie di raggiri
e truffe. Con un costo complessivo impressionante: la spesa totale
entro la fine dell’anno sarà di un miliardo e 300 milioni di euro.
In pratica: 20 mila euro a testa per ogni uomo, donna o bambino
approdato nel nostro Paese. Ma i soldi non sono andati a loro:
questa pioggia di milioni ha alimentato un suk, arricchendo
affaristi d’ogni risma, albergatori spregiudicati, cooperative
senza scrupoli. Per ogni profugo lo Stato sborsa fino a 46 euro al
giorno, senza verificare le condizioni in cui viene ospitato: in un
appartamento di 35 metri quadrati nell’estrema periferia romana ne
sono stati accatastati dieci, garantendo un reddito di oltre 12
mila euro al mese.
IN NOME DELL’EMERGENZA.
Ancora una volta
emergenza è diventata la parola magica per scavalcare procedure e
controlli. Gli enti locali hanno latitato, tutto si è svolto per
trattative privata: un mercato a chi si accaparrava più profughi. E
il peggio deve ancora arrivare. I fondi finiranno a gennaio: se il
governo non troverà una soluzione, i rifugiati si ritroveranno in
mezzo alla strada.
In Italia sono rimaste famiglie africane e asiatiche che lavoravano
in Libia sotto il regime di Gheddafi. La prima ondata, composta
soprattutto da giovani tunisini, ha preso la strada della Francia
grazie al permesso umanitario voluto dall’allora ministro Roberto
Maroni. Ma quando Parigi ha chiuso le frontiere, lo stesso Maroni
ha varato una strategia federalista: ogni regione ha dovuto
accogliere un numero di profughi proporzionale ai suoi abitanti
(vedi grafico a pag. 39). A coordinare tutto è la Protezione
civile, che da Roma ha incaricato le prefetture locali o gli
assessorati regionali come responsabili del piano di accoglienza.
Ma, nella fretta, non ci sono state regole per stabilire chi
potesse ospitare i profughi e come dovessero essere trattati. Così
l’assistenza si è trasformata in un affare: bastava una sola
telefonata per venire accreditati come “struttura d’accoglienza” e
accaparrarsi 1.200 euro al mese per ogni persona. Una manna per
centinaia di alberghi vuoti, ex agriturismi, case-vacanze
disabitate, residence di periferia e colonie fatiscenti.
IL MERCATO DEI RIFUGIATI.
Dalle Alpi a Gioia
Tauro, gli imprenditori del turismo hanno puntato sui rifugiati. A
spese dello Stato. Le convenzioni non sono mai un problema: vengono
firmate direttamente con i privati, nella più assoluta opacità.
Grazie a questo piano, ad esempio, 116 profughi sono stati spediti,
in pantaloncini e ciabatte, dalla Sicilia alla Val Camonica, a
1.800 metri di altezza. I proprietari del residence Le Baite di
Montecampione non sono stati i soli a fiutare l’affare. Anche nella
vicina Val Palot un politico locale dell’Idv, Antonio Colosimo, ne
ha ospitati 14 nella sua casa-vacanze, immersa in un bosco:
completamente isolati per mesi, non potevano far altro che cercare
funghi. I più furbi hanno trattato anche sul prezzo. La direttiva
ufficiale, che stabilisce un rimborso di 40 euro al giorno per il
vitto e l’alloggio (gli altri 6 euro dovrebbero essere destinati
all’assistenza), è arrivata solo a maggio. Nel frattempo, la
maggior parte dei privati aveva già ottenuto di più.
Gli albergatori napoletani sono riusciti a strappare una diaria di
43 euro a testa. Non male, se si considera che in 22 alberghi sono
ospitate, ancora oggi, più di mille persone. «La domanda
turistica al momento degli sbarchi era piuttosto bassa», ammette
Salvatore Naldi, presidente della Federalberghi locale. La
Protezione civile prometteva che sarebbero state strutture
temporanee. Non è andata così: solo all’Hotel Cavour, in piazza
Garibaldi, di fronte alla Stazione centrale, dormono tutt’ora 88
nordafricani. Le stanze, tanto, erano vuote: i viaggiatori si
tengono alla larga, a causa dell’enorme cantiere che occupa tutta
la piazza. Ma grazie ai rifugiati i proprietari sono riusciti lo
stesso a chiudere la stagione: hanno incassato quasi 2 milioni di
euro.
I richiedenti asilo però non sono turisti, ma persone che hanno
bisogno di integrarsi. La legge prevede che ci siano servizi di
mediazione culturale, che sono rimasti spesso un miraggio o sono
stati appaltati a casaccio:«A Napoli sono spuntate in pochi mesi
decine di associazioni mai sentite nominare», denuncia Jamal
Qadorrah, responsabile immigrazione della Cgil Campania: «Ogni
albergatore poteva affidare i servizi a chi voleva, nonostante ci
sia un albo regionale degli enti competenti. Tutti, puntualmente,
ignorati». Non solo. «A luglio di quest’anno abbiamo organizzato un
incontro fra il Comune e gli albergatori», racconta Mohamed Saady,
sindacalista della Cisl: «Diverse strutture non avevano ancora un
mediatore». Ed era passato più di un anno dall’inizio
dell’emergenza.I FURBETTI DEL MONASTERO.
Il business dei nuovi
arrivati non ha lasciato indifferenti nemmeno i professionisti
della solidarietà. Cooperative come Domus Caritatis, che gestisce
otto comunità solo a Roma. Anche i suoi centri sono finiti nel
mirino di Save The Children e del garante dell’infanzia e
dell’adolescenza del Lazio. Dopo numerose segnalazioni l’ong è
andata a controllare 14 strutture della capitale che si fanno
rimborsare 80 euro al giorno per l’accoglienza di minori stranieri
non accompagnati. Il risultato è un rapporto inquietante,
presentato a maggio alla Protezione civile e al Viminale, che
“l’Espresso” ha esaminato. Si parla di sovraffollamento, ma
soprattutto di senzatetto quarantenni fatti passare per ragazzini
scappati dalla Libia. Durante l’indagine sono stati intervistati
145 profughi. «Più di cento erano palesemente maggiorenni»,
denuncia l’autrice del rapporto, Viviana Valastro: «Quelli che
avevo di fronte a me erano adulti. Altro che diciassettenni. Non
posso sbagliarmi». Non solo. «Molti di loro erano in Italia da
tempo, non da pochi mesi. Alcuni arrivavano dagli scontri di
Rosarno».
Doppia truffa insomma: sull’età e sulla provenienza, per avere un
rimborso più che maggiorato e intascare milioni di euro. Tutto
questo da parte di una cooperativa strettamente legata
all’Arciconfraternita del Santissimo Sacramento e di San Trifone e
a La Cascina, la grande coop della ristorazione che tre anni fa è
stata al centro di un’inchiesta per il tentativo di entrare nella
gestione dei cpt.
Save The Children non è stata la sola a denunciare la situazione
romana. Anche il presidente della commissione capitolina per la
sicurezza, Fabrizio Santori, esponente del Pdl, ha dovuto occuparsi
di Domus Caritatis. La cooperativa infatti gestiva una comunità
che dava grossi problemi al vicinato, da cui arrivavano continue
proteste. Santori l’ha visitata e si è trovato davanti ad alloggi
di 35 metri quadri abitati da 10 persone. Peggio che in un carcere.
Eppure gli appartamentini di via Arzana, a metà strada fra Roma e
Fiumicino, più vicini all’aeroporto che alla città, permettevano
di incassare più di 12 mila euro al mese.
Save The Children ha calcolato che in strutture di questo tipo,
nella capitale, vivono quasi 950 persone. Dati incerti, perché
solo cinque cooperative hanno accettato di fornirli. Domus
Caritatis, dalla sua sede all’abbazia trappista delle Tre Fontane,
non ha voluto dare alcuna informazione. Il dossier dell’ong
internazionale descrive un caos assoluto: mancanza di responsabili,
nessun servizio di orientamento e accompagnamento legale, strutture
inadeguate. ACCOGLIENZA ALLA MILANESE.
Al Nord la situazione
non cambia. A Milano si registrano casi come quello della ex scuola
di via Saponaro, gestito dalla Fondazione Fratelli di San Francesco
d’Assisi, che ha accolto 150 rifugiati. Ospitati in una comunità
per la cura dei senzatetto, l’accoglienza dei minori e degli ex
carcerati: 400 persone, con esigenze diverse, costrette a vivere
sotto lo stesso tetto in una vecchia scuola. «Le condizioni sono
orribili: 10-12 letti per ogni camerata. E pieni di pidocchi e
pulci», racconta un ragazzo ancora ospite. Le stanze sono inadatte
perché costruite per ospitare alunni, non profughi, né tantomeno
clochard che vivono in strada. «Un contenitore della marginalità
sociale dove sono frequenti le risse: nigeriani contro kosovari,
ghanesi contro marocchini e la lista dei ricoverati in ospedale si
allunga ogni giorno», racconta chi è entrato tra quelle mura.
Anche il personale è ridotto al minimo con pochi mediatori
culturali (che spesso sono ex ospiti che non disdegnano le maniere
forti per mantenere l’ordine), un solo assistente sociale e una
psicologa per dieci ore alla settimana. Troppo poche per chi ha
conosciuto gli orrori della guerra, le botte della polizia libica e
porta sulla propria pelle i segni delle violenze. Anche i disturbi
psichici abbondano, insieme all’alcolismo dilagante.
A sette chilometri dai frati, 440 profughi hanno trovato alloggio a
Pieve Emanuele, estrema periferia Sud di Milano. Qui sono stati
ospitati nel residence Ripamonti, di proprietà del gruppo Fondiaria
Sai, appena passata sotto il controllo di Unipol ma all’epoca
saldamente in mano a Salvatore Ligresti. I clienti abituali
dell’albergo sono poliziotti, guardie del vicino carcere di Opera o
postini, che non bastano a riempire i 4 mila posti letto
dell’albergo. Grazie all’emergenza però nelle settimane di massimo
afflusso sono entrati nelle casse di Fonsai oltre 600 mila euro al
mese. Vacanze forzate in alloggi confortevoli (le camere sono
dotate anche di tivù satellitare) ma dove sono mancati
completamente i corsi per imparare l’italiano o l’assistenza legale
e psicologica. «Si poteva trovare una sistemazione più modesta e
investire in altri sussidi» dice, banalmente, un ragazzo del Ghana.
Oggi a Pieve Emanuele sono rimasti in 80. Ma nel frattempo al
residence sono andati quasi sette milioni di euro.
PER UN PIATTO DI RISO.
Lo Stato ha speso per l’emergenza
797 milioni di euro nel 2011 e altri 495 milioni nel 2012. Solo una
parte è servita per l’accoglienza: centinaia di milioni di euro
sono finiti in tendopoli, spostamenti, trasferte, rimborsi agli
uffici di coordinamento. Fondi di cui si è persa la traccia. E sì
che proprio per il buon uso dei soldi pubblici era stato istituito
un “Gruppo di monitoraggio e assistenza”, con il compito di
visitare le strutture e segnalare i casi critici. Ma della task
force degli ispettori dopo pochi mesi non si è saputo più nulla.
«Noi facevamo parte del progetto ma da ottobre 2011 non siamo più
stati convocati. Considerando che è partito ad agosto, il gruppo è
durato meno di tre mesi», spiega a “l’Espresso” Laura Boldrini,
portavoce dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i
Rifugiati: «E’ mancato completamente il controllo da parte delle
regioni e delle prefetture». La Corte dei conti della Calabria è
andata oltre: ha messo nero su bianco che le convenzioni
sottoscritte nella regione sono illegittime, perché non sono state
sottoposte al controllo preventivo della Corte, obbligatorio anche
nell’emergenza. Non solo. I giudici contabili di Catanzaro
definiscono “immotivata” la diaria: 46 euro al giorno sono troppi.
E pensare che in provincia di Latina sono riusciti a intascarseli
quasi tutti spendendo solo 5 euro al giorno, per garantire a 75
profughi un misero piatto di riso. I cinque avidi gestori della
cooperativa Fantasie sono stati arrestati dai carabinieri di
Roccagorna. Insospettiti dall’aumento di stranieri in paese, i
militari sono arrivati ad un casolare dove hanno trovato 46 persone
alloggiate in 70 metri quadri. Nonostante il blitz la cooperativa
ha continuato a ricevere i contributi della Regione Lazio per altri
sei mesi: una truffa da 400 mila euro. Con le stesse risorse
Aurelio Livraghi, volontario della Caritas di Magenta, in provincia
di Milano, è riuscito a fare tutt’altro. «Milioni di italiani
vivono con 1.200 euro al mese, perché loro no?». Osservazione
semplice. Di un pensionato, che ha dedicato ai 35 profughi arrivati
in paese le sue giornate. Persone oggi indipendenti: pagano un
affitto, fanno la spesa, quattro di loro hanno già un lavoro.
Recitano anche in teatro. Una vita normale: altro che emergenza. E
quando finiranno i fondi? «Potranno andare avanti almeno un po’
perché sono riuscito a fargli mettere da parte dei risparmi». Non
era difficile, sarebbe bastato un minimo di organizzazione. E di
umanità.