Augusta, giovani vite alla deriva in un comune che annaspa
“Stiamo facendo il possibile con i mezzi che abbiamo”: una frase che sento ripetere al porto di Augusta, mentre centinaia di migranti toccano a piedi nudi la banchina, e subito un operatore della Protezione Civile corre a consegnare loro un paio di ciabatte; un ritornello che le Forze dell’ordine e gli impiegati comunali ripropongono continuamente, quasi a volersi scusare per il fatto che centinaia di minori debbano vivere in una ex scuola fatiscente per mesi, senza poter avere un’istruzione e la protezione che spetta loro di diritto. Sì, perché Augusta, comune di 34.610 abitanti in provincia di Siracusa, sciolto nel marzo 2013 per infiltrazioni mafiose, e attualmente commissariato, sta lottando per stare a galla, tra centinaia di arrivi via mare e una percentuale di persone malate di cancro ai polmoni del 20% superiore rispetto alle altre zone della Sicilia, a causa dell’ingente numero di raffinerie di cui la costa è cosparsa.
Dopo circa un mese dalla mia ultima visita, entro alle Scuole Verdi di via Dessé alle 16, riconosco Vincenzo Amato, impiegato comunale che lavora come operatore nella struttura. Sta scherzando con alcuni ragazzi, si punzecchiano amichevolmente. Non sembra essere cambiato nulla dall’ultima volta: le stesse pareti scrostate, i panni appesi fuori dai balconi e nel cortile, il telo nero sul selciato dove i giovani musulmani pregano, e la stessa complicità che stempera la tensione dell’attesa. Enzo mi spiega che attualmente sono presenti in struttura 115 minori provenienti da Gambia, Mali, Nigeria, Costa d’Avorio, Egitto e Bangladesh, “ma entro sera ne arriveranno altri quindici”, interviene il signor Occhipinti, responsabile della struttura e reduce dell’ennesimo sbarco al porto della città. “Alcuni di questi ragazzi sono qui da quattro mesi, altri da poche settimane. Ogni giorno ci sono volontari che vengono a fare lezione di italiano per tutti, e poi una ventina di loro è già regolarmente iscritta a scuola, ma solo coloro a cui è stato affidato un tutore”. Ad oggi si contano infatti soltanto sette tutori, a ciascuno dei quali sono affidati tre ragazzi. “Bisogna tenere presente”, aggiunge Occhipinti, “che questa dovrebbe essere esclusivamente una struttura di transito, non è adatta a lunghe permanenze e lo stesso comune è stato colto alla sprovvista dovendo adattare una vecchia scuola a centro di primissima accoglienza”. Aule trasformate in stanze, solo tre docce e sei bagni, e un ambulatorio medico dove lavorano un pediatra e due mediatrici culturali di Emergency, che riescono a coprire tutte le lingue parlate dai migranti, arabo compreso.
Gli operatori, tre persone per un centinaio di giovani, lavorano nel centro dalle 9 alle 22, dopodiché i minori vengono lasciati soli, eccezion fatta per la polizia che staziona fuori dalla scuola per evitare l’ingresso di estranei. Ogni mattina gli operatori fanno l’appello, con il supporto di un’ assistente sociale. Capita che qualcuno sparisca? Spesso. “I giovani eritrei scappano quasi sempre e subito, anche gli egiziani. A volte però loro ritornano, dicono di essere stati a trovare degli amici”.
Faccio il giro delle stanze, ognuna contiene tra le otto e le dieci brandine. Enzo mi spiega che i minori sono divisi per etnie, non mancano infatti momenti di tensione a causa delle diverse culture o forse, come per tutti gli adolescenti, di caratteri che si stanno formando. “A volte ci sono delle piccole risse e di notte alcuni ragazzi entrano nelle stanze per disturbare gli altri che dormono”, racconta la mediatrice di Emergency.
Nel grande stanzone al secondo piano, dove dormono ventuno ragazzi, incontro C.: ha quindici anni, viene dalla Costa d’Avorio, ha gli occhi stanchi di un uomo che ha sofferto, ma i lineamenti delicati e la voce ancora acerba rivelano violentemente la sua giovane età. “I miei amici non sono più qui, appena hanno compiuto diciotto anni sono stati trasferiti a Siracusa. Preferirei essere con loro, qui non posso fare niente. Vorrei studiare, se non studio non imparo, se non imparo non lavoro, e se non lavoro come posso costruirmi una vita? L’unico amico che ho qui ora è a scuola, lui ha un tutore perché vive qui da maggio. Se andassi a scuola potrei avere dei nuovi amici e parlare con loro in italiano”. Mi guarda, è magro. Mi dice che fatica a mangiare pasta al pomodoro ogni giorno.
Mi avvicino all’uscita, un decina di migranti ha sistemato le sedie sul marciapiede di fronte al cancello d’ingresso, guardano le poche persone che passano e aspettano. Di lì a poche ore arriveranno nuovi compagni e altri se ne andranno.
Le Scuole Verdi sono una struttura provvisoria ormai da cinque mesi, così come l’immigrazione in Italia è un’ “emergenza” da circa vent’anni. L’incapacità, o la scarsa volontà, di inquadrare la gestione dei flussi migratori in un’ottica a lungo termine si ripercuote sulla vita delle persone che nel nostro Paese cercano protezione e pace, e su quella di coloro che in questa Italia sono nati e cresciuti, e che come tali avrebbero diritto a condizioni di lavoro e di vita dignitose.
Beatrice Gornati
Borderline Sicilia Onlus