Visita al centro informale Umberto I di Siracusa

Oggi pomeriggio ho incontrato la referente locale di Siracusa e il
coordinatore siciliano del progetto Polibus
di Emergency. Il Polibus è un grande autobus rosso che funge da ambulatorio
mobile. Uno di questi ambulatori è parcheggiato nei pressi del centro di smistamento di Siracusa
Umberto I dal luglio scorso, quando gli operatori di Emergency si accorsero
della necessità di un’assistenza sanitaria e di mediazione culturale costante
presso questo centro informale di accoglienza.

Sul polibus lavorano attualmente un medico, due infermieri, cinque
mediatori culturali e un logista-autista. Lo staff offre assistenza medica di
base agli immigrati del centro tutti giorni dal lunedì al venerdì, escluso il
mercoledì. Un giorno in settimana, infatti, il polibus si sposta al centro di
Ausguta presso il quale sono collocati transitoriamente i minori non
accompagnati. Altri medici volontari affiancano di tanto in tanto lo staff di
Emergency; si segnala in particolare l’aiuto significativo di un dentista
volontario.

I due operatori di Emergency parlano di una buona collaborazione tra lo
staff di Emergency e i medici dell’ ASL che lavorano invece direttamente
all’interno del centro. Di fatto sottolineano come da un anno a questa parte
l’assistenza sanitaria generale all’Umberto I sia notevolmente migliorata,
soprattutto grazie alle loro segnalazioni e richieste di intervento alla
prefettura di Siracusa. Ci sarebbe un costante bisogno, però, di più mediatori
culturali, dicono, e di più attenzioni presso il centro di smistamento per
minori non accompagnati di Augusta.

Più tardi mi sono recata al centro Umberto I dove ho potuto raccogliere più
informazioni sulla situazione del centro. Qui sono ora accolti circa 290
migranti, tutti uomini e per lo più di provenienza subsahariana.

Diversi migranti aspettano il loro turno di visita davanti al polibus,
parcheggiato nel cortile più esterno della struttura. Seduti sotto un gazebo o
su diverse sedie di plastica appena fuori dall’ambulatorio mobile, sonnecchiano
sotto il cocente sole di luglio, parlano con le mediatrici di Emergency,
aspettano.

Normalmente, mi spiega un agente in servizio, la polizia sorveglia
l’entrata del centro e circa 20 uomini (poliziotti, carabinieri, finanzieri) si
trovano costantemente presso il centro. Oggi sono tutti impegnati altrove,
aggiunge, (ad Augusta forse) e per questo sono di sorveglianza solo in due.

Comincio a chiacchierare con i ragazzi che giocano a calcetto nell’atrio.
Sono simpatici, incuriositi dalla mia presenza ma non troppo sorpresi. Mi
dicono che vengono per lo più da Gambia, Senegal e Mali e molti sono arrivati
più di cinque mesi fa.

Mi sposto un po’ più in là e comincio a parlare con un altro gruppetto di
ragazzi. Chiedono di me: da dove vengo, cosa sto facendo, dove vivo. Uno di
loro si offre di accompagnarmi a fare un giro. Diversi ragazzi sono seduti
sotto il sole, sul muretto che divide il cortile centrale dalla struttura
circostante: chiacchierano, giocano a calcio, passeggiano. Sembrano tutti molto
giovani: quelli con cui parlo hanno tutti tra i 21 e 25 anni.

Una volta arrivata all’altezza dell’auto della polizia uno dei due
poliziotti mi invita ad avvicinarmi. Gli spiego cosa sto facendo e mostro la
lettera di presentazione di Borderline Sicilia. Il poliziotto mi da il permesso
di visitare il centro e continuare la mia attività di monitoraggio, mi avverte
però di non avvicinarmi a una delle ali del centro, dove, dice, “vi sono
persone pericolose”. Chiedo che cosa intenda per
“pericolose” e lui mi risponde che in quel punto della struttura vi sono gli
ospiti malati di scabbia, i quali non posso uscire nel cortile per prevenire il
contagio.

Continuo la mia visita accompagnata da uno degli ospiti, un giovane ragazzo
gambiano. Mi racconta che nel centro non si vive male; il cibo è buono e loro
possono entrare ed uscire quando vogliono.

Quando stiamo per entrare nella struttura stessa per visitare l’interno
dell’edificio, un operatore del centro mi fa segno di andare nell’ufficio del
direttore, dall’altra parte del cortile interno. Questo mi chiede spiegazioni
sulla mia presenza. È gentile ma mi ricorda che non è permesso entrare in
strutture d’accoglienza per migranti senza uno specifico permesso della
prefettura, e sottolinea come questo non dipenda da lui.

Il poliziotto che prima mi aveva lasciato entrare mi accompagna fuori dal
cortile principale del centro dove sosta il Polibus. Mentre camminiamo gli
chiedo alcune informazioni sulla situazione del centro: mi dice che le cose
vanno bene; che i ragazzi sono tranquilli e che non stanno affatto male.
“Guarda”, mi dice “hanno anche il maxischermo per vedere le partite di calcio”,
indicandomi un grande telo di plastica bianco affisso a una delle pareti del
cortile.

Mi fermo un po’ a chiacchierare con i ragazzi in attesa di essere visitati,
soprattutto con i Gambiani, con i quali posso comunicare in inglese. Altri
intervengono con qualche parola in italiano, inglese o in francese. Sono
contenta di poter comunicare con loro. Mi dicono che pochi italiani sanno
l’inglese, anche tra gli operatori del centro.

Come mi era stato confermato nel primo pomeriggio dagli operatori di
Emergency, le condizioni del centro non sembrano, tutto sommato, deplorevoli. I
ragazzi sembrano tranquilli sotto il caldissimo sole estivo. Sono venuti per lo
più soli, ma sembrano avere trovato buoni amici all’interno della struttura,
così mi confermano.

Mi dicono che vogliono andare via dalla Sicilia, raggiungere l’Italia del
nord e trovare un lavoro.

Ma, appunto, nonostante i centri di smistamento potrebbero ospitare i
migranti per non più di 72 ore dopo lo sbarco, la maggior parte dei ragazzi con
cui ho parlato vive nel centro già da alcuni mesi e non ha idea di quanto dovrà
aspettare.

Irene Leonardelli

Borderline Sicilia Onlus