In Sicilia sbarca la guerra

Flore Murard, Unità – Siracusa.All’improvviso eccola la guerra che sembrava “distante” o confinata alla Tv. Eccola sui moli, sulle spiagge e le scogliere della costa sud-orientale della Sicilia dove giungono pescherecci colmi di rifugiati. Il flusso è cambiato, non sono più migranti economici ma profughi, per lo più siriani, sfuggiti ad un sterminio: bambini, anche piccolissimi,che rappresentano quasi un terzo degli ultimi arrivi di questi giorni. Donne, famiglie intere messe in salvo da padri di famiglia che trovano ancora l’energia, malgrado siano allo stremo, di raccontarti le bombe, le milizie, i gas, le armi chimiche perché la verità sia detta. L’orrore, quando intorno a te è tutto crollo e sangue.
“Ad Aleppo avevo un negozio ben avviato, è stato raso al suolo dall’esercito. Io ero salvo ma ho visto mio vicino tagliato a metà da un razzo. E’ stato un’ istante, posso perdere tutto ma non miei figli. Possono distruggere tutto ma noi dobbiamo restare vivi, restare umani”, come racconta Anas, un giovane padre di tre bimbe. E’ giunto l’altro ieri insieme ad altri centinaia di siriani tra cui circa 30 bambini e neonati, dopo che il barcone si fosse arenato sulla scogliera di Punta Milocca. Eccoli seduti, con un unico zaino, all’ombra della stazione di servizio di Fanusa a pochi kilometri da Siracusa. Mohammed, un ex-soldato dell’esercito governativo per non essere costretto ad uccidere è sfuggito e mi fa vedere ferite di armi nella schiena: “Il sangue deve essere fermato; è molto diverso quando senti parlare di una strage e ce l’hai sotto gli occhi. Era tutto distrutto, un rogo. Avrei voluto che sia solo un incubo e risvegliarmi”. Ali, invece padre cinquantenne, dieci anni di lavoro come in Germania, mi racconta in tedesco: “La vita era diventata impossibile. Per strada ho visto dai miei occhi decine di cadaveri uccisi con le armi chimiche, poi con le pance gonfie per veri giorni. Era diventato invibile”. “Voglio solo fare vivere miei bambini in pace – racconta ancora – senza i rumori e il male di testa dalle bombe e farli tornare, dopo tre anni, a scuola. Non so dove ci siamo imbarcatati né dove sono approdato, si scappa e basta. Mi ricordo solo che ci hanno trasferiti varie volte, da una piccola barca ad una più grande, per cinque giorni consecutivi, senza cibo né acqua”.

La fuga dura giorni, mesi. Anas non si ricorda nemmeno più bene quando è diventato esule “credo circa due anni fa”. Vari campi, paesi attraversati. Provengono da tutte le città dalla Siria e ognuno avrebbe una storia da sé grande come un libro da raccontare; dai racconti emerge quale sia la nuova ruota migratoria: Libano, Giordania, Egitto o Turchia Egitto e poi il nuovo tratto via mare Cairo – Sicilia. Decine di giorni nelle mani dei trafficanti (non siriani), raggomitolati a centinaia in pescherecci, mentre ci vorrebbero da mesi cordoni umanitari sicuri e gestiti dalla comunità internazionale. Poi l’approdo in Sicilia, senza nemmeno sapere dove sono giunti. Solo che sono vivi. Chi mi parla è stremato. Non insisto con le domande. Ma la loro gioia è palpabile, visibile dai lunghi e luminosi sorrisi che mi regalano, che hanno il sapore della vita salva.

Qui non è il molo di Lampedusa però. Le file ordinate, il presidio sanitario e le cineprese. In Sicilia sud-orientale gli sbarchi da sei mesi sono informali, spontanei, avvengono senza la dovuta assistenza, a volte non vengono informate neanche le istituzioni competenti. A chiamare la polizia o il 118 sono gli abitanti o i passanti. Ad accogliere i migranti, il dispositivo quasi militare di polizia, carabinieri, guardia di finanza: gestione di ordine pubblico e non vera e propria accoglienza (al di sotto di ogni standard internazionale). Il pullman, le lunghe procedure di identificazione e di foto segnalazione all’Ufficio immigrazione, poi il trasferimento nel centro di cosiddetta accoglienza ex Umberto I. La struttura ospedaliera in disuso, gestita dal luglio 2012 dalla “Clean Services” senza una vera e propria gara d’appalto ma che può operare grazie ad una seria di verbali di affidamento della Questura, sarebbe in procinto di diventare giuridicamente un centro di primo soccorso e accoglienza (Cspa). Un edificio fatiscente, dove se non fosse per il polibus di Emergency – l’ambulatorio sanitario che assicura un presidio 24 su 24 nel cortile del centro – non supererebbe il test dei minimi requisiti igienico-sanitario. Materassi sporchi senza lenzuola, nessuna mediazione di associazioni indipendenti né assistenza post-traumatica, nessuna informazione né tutela, solo sbarre e cordoni di poliziotti. Da lì comunque ieri mattina rifugiati appena rimessi si erano già allontanati, alcuni mi chiamano dai treni, dai taxi “stiamo andando in Svizzera, in Svezia dai nostri parenti”: fuori dall’Italia. Non vogliono rilasciare le impronte digitali qua, ed è la grave criticità che identificano nell’accoglienza in Italia che ringraziano peraltro, perché vogliono ricongiungersi con le loro famiglie nei altri paesi europei. Persone che sarebbero meritevoli di protezione internazionale, di ricevere un’appropriata informazione e tutela legale, non l’accoglienza emergenziale e impreparata della regione Sicilia di fronte a questo fenomeno. Gestito come questione di ordine pubblico, senza voler riconoscere che, invece, ha tmutato natura: si tratta di una questione umanitaria, che non mancherà di peggiorare se USA e Europa dovessero decidere l’intervento armato.

Pubblicato nell’edizione nazionale dell’Unità del 29 agosto 2013, sezione “Le storie”, p.13