Pala Nebiolo di Messina: impronte con la forza e bugie ai vulnerabili
A conclusione del seminario
“Sicilia crocevia del Mediterraneo tra guerre aperte e frontiere” a
cui abbiamo preso parte il 30 gennaio scorso, ci siamo recati con i rappresentanti
dell’associazione Migralab di fronte al Palanebiolo, per poter monitorare la situazione
attraverso interviste agli ospiti.
Abbiamo da subito incontrato un
primo gruppo di migranti, per la maggior parte Somali ed Etiopi, tutti giunti
al Palanebiolo da pochi giorni. Non hanno saputo dirci in quale porto della
Sicilia fossero arrivati, ma
raccontavano di essere stati trasferiti subito su un pullman e aver raggiunto
Messina dopo circa due ore di viaggio.
Presumibilmente fanno parte dei 700 migranti arrivati ad Augusta lo scorso 27 gennaio.
Da quello che raccontano, il totale di coloro che sono stati trasferiti qui
sarebbe stato di 270, ma molti sono scappati dopo alcuni giorni.
I nostri interlocutori ci informano
che all’interno del centro è in corso una protesta dal mattino: tutti si sono
rifiutati di mangiare perchè ” non si
può stare lì, non è una casa, fa troppo freddo”. Questi ragazzi hanno
solo gli indumenti che gli vediamo addosso e una coperta. Alle motivazioni
generali della protesta aggiungono che sono stati costretti con la forza a rilasciare
le impronte digitali e vogliono sapere da noi cosa comporterà perché è stato
detto loro che poi sarebbero stati liberi di andare dove volevano in qualsiasi
paese d’Europa.
Quando gli spieghiamo come funziona
la procedura di richiesta di protezione e i limiti imposti dal Regolamento
Dublino alla libertà di circolazione dei richiedenti asilo, rimangono esterrefatti
e iniziano a farci numerose domande.
Ci accorgiamo che alcuni di loro
sono molto giovani e infatti tre di loro confermano la minore età. Sono somali
e hanno tutti 17 anni ma sono stati registrati con una data di nascita sbagliata.
Chiediamo se ci sono altri minori oltre a loro all’interno del campo, e la
riposta è affermativa: alcuni sarebbero dentro il Palanebiolo, molti altri sono
tra i migranti scappati la notte precedente. I tre giovani somali si rifiutano
di darci i loro nomi, che chiediamo per poter segnalare la loro presenza e
situazione alle organizzazioni che si occupano della tutela dei minori (che
evidentemente non hanno fatto alcun sopralluogo di recente). Si dicono
stressati e spaventati perchè al loro arrivo sarebbero stati trattati male, durante
la fase di soccorso e quella di arrivo al porto. Una volta giunti al Palanebiolo,
denunciano di essere stati costretti con la forza a fornire le impronte e di
essere stati ingannati rispetto alla possibilità di muoversi in tutta Europa. Spieghiamo
loro l’importanza di rendere pubbliche le loro dichiarazioni e ribadiamo
l’importanza di poter avere i nomi dei minori per fare le segnalazioni a chi di
dovere, ma ci dicono che non possono, hanno paura che noi potremmo essere
“alcuni di loro”.
A quel punto, per cercare di vincere
la loro comprensibile reticenza, mettiamo per iscritto tutti i nostri dati, tra
cui il numero di telefono e i riferimenti del blog di Borderline Sicilia perchè
possano eventualmente verificare e capire meglio il motivo della nostra
presenza. Li invitiamo a raccontarci tutto nuovamente chiedendo l’autorizzazione
a fonoregistrare. Soltanto uno di loro, il più grande, che è evidentemente un
punto di riferimento del gruppo, se la sente di parlare.
“Quando siamo arrivati la maggior parte di noi non voleva stare
in Italia. La maggior parte di noi voleva viaggiare in altri Paesi dell’Unione
Europea. Così , quando siamo arrivati come rifugiati la polizia ci ha forzato a
dare le impronte, ci hanno forzato colpendoci con dei manganelli elettronici.
Alcune persone colpite non sapevano neanche che cosa volessero che loro
facessero. La polizia afferrava le braccia, le mettevano nella macchina e
prelevavano le impronte e loro neanche sapevano se darle e no. Dopo questo
momento scoprivi di aver dato le impronte.
Da quanto tempo siete qui? Penso 5 giorni
Tutti voi? No, non tutti
noi, alcuni sono qui da un mese, altri da 20 giorni
Ricordate il porto dove siete arrivati? No. Ci hanno fotografato vicino al porto e ci hanno dato questo numero.
Anche quando stavamo entrando al porto, anche le lì la gente ci ha trattato nei
peggiori dei modi.
Prima ci avete detto che vi hanno
trattato male anche durante le operazioni di soccorso, cosa hanno fatto? Ci
hanno trattato male e alcuni ci hanno anche bastonato
Perché? Non lo sappiamo.
Lo facevano forse per avere il
controllo del flusso di persone da trasbordare? La gente voleva cambiare imbarcazione dalla piccola alla grande nave. Sono
arrivati ad aiutarci. Quando siamo arrivati alcune persone dentro la barca erano
sporchi, malconci, mal vestiti. Quando raggiungevamo la linea della nave
colpivano le persone. Sì, ci hanno colpito. Nella nave loro parlavano solo
italiano e nessuno di noi parla italiano. Non c’erano traduttori, così loro ci
dicevano le cose con i manganelli.
Al momento dell’arrivo al porto
avete incontrato rappresentati di organizzazioni che vi hanno dato delle informazioni
sul diritto d’asilo? Nessuno ci ha detto
niente.”
Chiedo ora ai minori di raccontare
nuovamente quello che mi hanno detto in precedenza sulla registrazione della
loro data di nascita. Il registratore va, ma è silenzio. Interviene nuovamente
lui ,il più grande, a rompere il silenzio. Dice: “Hanno paura”. Perché hanno paura,
chiedo? “E’ spaventato di queste
persone, di quelle che lavorano in ufficio, della polizia, di quelle che
lavorano nel centro. Per questo non possono darti il nome.” I tre ragazzini
parlano con lui un attimo e poi lui inizia a tradurre: “Quando siamo arrivati, prima che scendessimo dal pullman alcuni
traduttori sono saliti e ci hanno detto: chiunque di voi abbia meno di diciotto
anni quando viene a compilare il formulario deve dire di essere maggiorenne – hanno detto- perché forse quelli sotto i diciotto anni forse dovranno ritornare
indietro.” I minori si rivolgono
nuovamente a lui parlando in somalo, e lui poi ci riporta testuali parole: “dice che gli hanno cambiato la data di
nascita”.
Chiediamo allora in che modo hanno cambiato la data di
nascita, finalmente è uno dei tre minori a farsi sentire direttamente, anche se
a voce molto bassa: “Hanno scritto la
maggior parte di noi come diciottenni o diciannovenni. Noi non siamo
maggiorenni”.
Ci accorgiamo che molti dei loro sguardi sono ora rivolti
verso il cancello, da dove qualcuno ci sta guardando a vista, questo li mette
visibilmente in tensione così gli spieghiamo che loro sono liberi di parlare
con noi, che non stanno commettendo nessun reato. Qualcuno di loro ci domanda perché
non entriamo direttamente nel centro e spieghiamo che non siamo autorizzati a
farlo. Ci dice: “Sai perché non ti diamo
nessuna informazioni? Perché tutte le persone che abbiamo incontrato ci mentono
e nessuno ci dice la verità”.
Chi ti ha detto bugie, chiedo. “Molti, molti, molti: le persone dell’ufficio. Ci hanno detto ‘tu dai le impronte e poi tu sei libero di andare dove
vuoi’. Ci hanno detto ‘state qui solo due giorni e poi potete andare dove
volete’.” Infine, prima di andare via, il ragazzino vuole chiederci per la
terza volta le conseguenze del rilevamento delle impronte ma senza essere
registrato. Mi chiede cosa succederebbe se andasse in un altro Paese. Il
giovane vuole raggiungere il fratello che si trova in un altro Stato, ma nessuno
prima del nostro arrivo gli aveva spiegato la possibilità del ricongiungimento
familiare, che sarebbe stato ancora più facile se fosse stato identificato come
minorenne, come dichiara di essere.
Chiediamo a quelli che stanno
rientrando di chiamare gli altri minori che conoscono nel campo (ne arriverà
solo uno con la foto del suo certificato di nascita sul cellulare) e nel frattempo
continuiamo la nostra conversazione con altri gruppetti di migranti che, man
mano, escono dal centro. Le nazionalità sono le più diverse:l Gambia, Somalia, Etiopia,
Mali e Nigeria. Alcuni sono qui anche da un mese e mezzo e quando chiediamo
loro come stanno la risposta è sempre che fa freddo, che quando piove entra
l’acqua.
Sono arrivati in periodi diversi. C’è chi è lì da un
mese e mezzo. Un ragazzo del gruppo giunto il 15 dicembre mi dice di guardare
la giacca che indossa. Gliel’ha data una persona perché l’ha visto camminare in
strada un giorno che faceva freddo e lui aveva addosso solo un maglione. Altri,
compresi i “nuovi arrivati” ,invece, dicono di aver ricevuto gli indumenti (una
tuta, una giacca e un paio di scarpe) ma che fa troppo freddo, soprattutto di
notte e questo vestiario non basta per stare nelle tende. Tende che se piove si
inzuppano d’acqua mentre intorno c’è fango ovunque e non ci si può muovere da
una parte all’altra del campo.
Tra quelli con cui stiamo parlando notiamo
un ragazzo particolarmente malandato. E’ gonfio in viso, ha un’espressione
dolorante e tiene una mano sulla pancia. Si trova al Palanebiolo da un mese e
ha 21 anni. Ha iniziato ad avere problemi in Libia dove ha passato 2 mesi in
carcere, a causa delle condizioni igieniche, e forse è gonfio per un’infezione ,
ma dice che il suo vero problema sono i dolori al ventre che lo affliggono da
un mese. Il dottore che lo ha visitato al Palanebiolo gli ha detto che dovrà
essere operato, ma non conosce la diagnosi e neanche se e quando sarà operato.
Non gli risulta che sia stato fissato un appuntamento per una visita
specialistica o un ricovero. E’ presumibile che non ci sia ancora una presa in
carico della sua situazione perché si sta attendendo il trasferimento. Ma lui
dice di stare troppo male ed accetta l’invito a chiamare un’ambulanza che lo
porti in ospedale. Convincere l’operatore del centralino a disporre l’intervento
sanitario non ‘è stato facile, ma alla fine ci siamo riusciti.
A quel punto, sono in molti a farci
presente i loro malesseri e problemi fisici: chi ha mal di pancia, chi soffre
di mal di denti, chi mal di testa, chi ha problemi a camminare e chi ha forti
dolori alla schiena o alle articolazioni. Un altro ci dice di non riuscire a muovere
bene le gambe da quando è stato picchiato in Libia. Non ci resta che prendere i nomi per avviare
delle segnalazioni.
E’ difficile dover spiegare che
purtroppo non possiamo fare niente per loro perché l’ambulanza può intervenire
solo in situazioni di emergenza. Consigliamo loro di rivolgersi al medico del
centro. Tutti rispondono di esserci già andati ma che è inutile perchè nessuno
fa niente per loro, non danno neanche le medicine o, quando le danno, è sempre
la stessa per qualsiasi problema.
L’ambulanza in arrivo a sirene spiegate
richiama l’attenzione della polizia e di due operatori che escono dal centro
mentre il ragazzo sale in ambulanza per la visita pre-ricovero. Chiediamo alla
mediatrice come sia possibile che si stia verificando una situazione tanto
grave all’interno del centro e chiediamo se siano presenti le organizzazioni
umanitarie: ci riferisce che da un mese
e mezzo nessun rappresentante entra nel centro.
Ci raggiunge un agente di polizia che
ci chiede i documenti con toni che facciamo presente essere fuori luogo poiché
non stiamo commettendo alcun reato. Con loro c’è anche un altro operatore che ci
dice che noi non li conosciamo “20 stanno obbligando 200 a fare la protesta
rifiutandosi di mangiare. Dovrebbero essere riconoscenti perché gli hanno dato
abiti e cibo e per come sono abituati!” Nega che ci sia freddo e quando diciamo
che anche noi ne sentiamo molto e non è ancora notte, mi risponde che allora se
si ha freddo, si deve restare a casa.
Intanto il medico dell’ambulanza
predispone l’accompagnamento in ospedale del ragazzo per un accertamento e la
mediatrice va con loro. I poliziotti che hanno già comunicato i nostri dati
alla centrale ci raccontano le grandi difficoltà a gestire la situazione e
aggiungono che la nostra presenza certo non aiuterà a tenerli calmi. Insinuano
anche, e più volte che siamo lì per “aizzare” la protesta. Anche aver chiamato
l’ambulanza sembra loro un’esagerazione, ma il fatto che sia stato predisposto
il ricovero parla da sé. Sembrano preoccuparsi del fatto che le informazioni
che abbiamo dato possano fomentare un’altra protesta. In risposta alle numerose
domande che i migranti ci hanno posto, abbiamo spiegato loro la procedura di
richiesta d’asilo secondo la legge italiana, dando informazioni che avrebbero
dovuto ricevere al loro arrivo in Sicilia.
Quasi a conclusione della nostra
visita sono arrivati gli attivisti del circolo Arci di Messina con un avvocato
e un medico. Segnaliamo loro i casi dei minori registrati con data diversa
incontrati prima, accompagniamo il minore che si era presentato a noi con la foto
del certificato di nascita e due casi particolarmente gravi di salute.
Il 4 febbraio 117 migranti sonoarrivati al porto di Messinadove erano presenti i rappresentanti delle istituzioni e delle associazioni che
fanno parte della consulta. Si parla di accoglienza con protocollo consolidato.
il loro trattamento dovrebbe dunque essere diverso da quello riservato alle decine
di migranti incontrati davanti al pala Nebiolo.
A seguito della nostra visita,
abbiamo inoltrato le segnalazioni relative alla presenza di minori e
altri soggetti vulnerabili ai referenti per l’immigrazione del Comune
e dalle Prefettura, nonché i presunti abusi e violazioni di legge alle
organizazioni umanitarie UNHCR, OIM e Save The Children. Ad oggi alcuna autorità
ha fornito un riscontro alle nostre segnalazioni, mentre soltanto l’UNHCR
ci ha risposto, riferendo di aver visitato nei giorni primi giorni di febbraio la
struttura che non ritengono “adeguata alle lunghe permanenze e
all’accoglienza di soggetti portatori di bisogni specifici” e di avere
segnalato le criticità alle competenti autorità. Inoltre, ci hanno confermato
che molti richiedenti asilo hanno riferito difficoltà ad essere ammessi alla
procedura, nonché che le attività di informativa e di accesso alla procedura
sarebbero state “ritardate” in alcune occasioni alla fase successiva alla
pre-identificazione. Ad oggi infine a Borderline Sicilia non risulta che siano
stati presi alcuni provvedimenti finalizzati a rimuovere
le condizioni di irregolarità e a far cessare gli abusi e le violazioni in
atto.
Giovanna Vaccaro
Borederline Sicilia Onlus