Donne e migrazioni fra memoria attiva e solidarietà
Davanti alla sistematica violenza nei confronti delle persone migranti – vittime di respingimenti, uccise dalle frontiere o scomparse lungo le rotte migratorie – l’impegno delle donne – migranti, attiviste, madri e sorelle – rappresenta un fondamentale contributo di testimonianza e denuncia dei luoghi di confine attraverso pratiche di memoria attiva e di solidarietà.
Missing migrants nel Mediterraneo e l’azione di ricerca delle donne
Duecentocinquanta sono le morti di migranti accertate dall’OIM dall’inizio del 2021. Tra questi numeri rientrano anche numerose migranti donne: infatti, proprio in questi giorni, in occasione della Giornata della donna dell’8 marzo, l’IOM ha ricordato le migliaia di bambine e donne morte o disperse lungo le rotte migratorie. Da questi dati risulta che dal 2014 ad oggi sono almeno 1.074 le migranti donne che hanno perso la vita o sono scomparse nel Mediterraneo.
E non solo in mare, anche una volta approdate in Sicilia sono vittime del sistema di accoglienza violento e ghettizzante: in questi giorni sull’isola è morta Souad, tunisina con problemi psichici, trattenuta sulla nave quarantena Adriatica che, una volta a terra, si è gettata dalla finestra del centro che doveva accoglierla.
Come osservatorio sulla Sicilia e sulla rotta del Mediterraneo centrale, monitoriamo i costanti e continui naufragi, di piccole o grandi imbarcazioni che partite dalla Libia o dalla Tunisia non riescono a raggiungere le coste siciliane e, sempre più spesso, non vengono soccorse in tempo. Su questo gioca un ruolo fondamentale la criminalizzazione delle ONG, i blocchi delle navi umanitarie e la sospensione delle preziose operazioni di “search and rescue” nel Mediterraneo che permetterebbero di contrastare le politiche di morte dell’UE e di salvare le vite di numerose persone.
Proprio in questi giorni la ONG Mediterranea è finita nell’inchiesta che coinvolge quattro persone accusate dalla Procura di Ragusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e di violazione delle norme del codice della navigazione.
L’ultimo naufragio noto nel Mediterraneo risale alla notte dell’8 marzo ed è avvenuto in acque tunisine. La barca era partita da Sfax carica di migranti, in prevalenza di origine sub-sahariana, diretti a Lampedusa. Il 9 marzo i giornali hanno informato pubblicamente che 193 persone sono state salvate dalla Guardia costiera tunisina ma hanno perso la vita almeno 39 persone – tra cui almeno 9 donne e 4 bambini.
Queste tragiche storie riguardano anche le famiglie lasciate indietro: infatti, la migrazione è quasi sempre un progetto familiare o collettivo, in cui le persone intraprendono viaggi rischiosi con il sogno di sostenere la vita delle persone rimaste a casa, le quali vivono gli effetti economici, sociali e, naturalmente, dolorosamente emotivi della perdita. Manca completamente il sostegno istituzionale a queste famiglie, comprese le informazioni su come cercare i loro cari o come procedere con le segnalazioni ufficiali alle istituzioni competenti.
Tra i familiari che in questi anni hanno perso un loro caro c’è Daoudi, una mamma tunisina che da luglio 2020 non smette di cercare suo figlio, Hamdi Besbes, ventiseienne meccanico su un peschereccio arrivato a Lampedusa quest’estate e scomparso da allora. Da 7 mesi cerchiamo di supportarla nella sua dolorosa ricerca che l’ha portata a prendere parte a manifestazioni presso le istituzioni tunisine e a lanciare un appello per richiedere verità e giustizia per suo figlio scomparso e per tutti i dispersi del Mediterraneo.
Anche Jalila è la mamma di due migranti tunisini, una donna che ha chiesto di venire a Palermo per assistere all’esumazione e al rimpatrio dei corpi dei suoi due figli, Mohamed Hedi e Mardi Hedi, morti in un naufragio avvenuto in Sicilia nel 2019. Jalila non è sola, con lei ci sono la figlia Nourhene e la fidanzata di uno dei suoi figli deceduti a ricordare le storie dei due giovani.
Oltre loro, ci sono innumerevoli altre mamme e sorelle – come Anissa, Fatma e Amal – alla ricerca delle persone disperse, trattenute in centri di detenzione, ospiti di centri di accoglienza o bloccate sulle navi quarantena. In Tunisia si è costituito un nucleo di donne che da anni ormai continuano a chiedere verità e giustizia sulle sparizioni e le violenze che avvengono nel Mediterraneo, supportate anche dalle associazioni italiane.
Donne tunisine e italiane, europee o africane che denunciano con le loro azioni e con la loro voce le politiche europee di morte.
“Un ponte di corpi” e le donne delle frontiere
L’instancabile lotta di queste donne si lega al Manifesto di “Un ponte di corpi”, scritto da Lorena Fornasir, da cui è nata l’iniziativa del 6 Marzo in vari confini d’Italia e d’Europa.
In questa giornata – da Trieste a Ventimiglia, da Claviere alla Sicilia, a Berlino, in Irlanda e nei Paesi Bassi – i corpi di donne e di uomini hanno simbolicamente dato forma ad un ponte di attraversamento delle frontiere, in una giornata di denuncia delle violenze subite dai migranti e di rivendicazione della libertà di movimento.
Le protagoniste erano le donne solidali a cui l’appello di Lorena era rivolto, con l’intento di unire le attiviste sui confini con le donne parenti dei migranti, quelle sorelle e mamme che restano in attesa nei paesi di origine.
Lorena è impegnata a Trieste nella cura delle ferite di coloro che attraversano la rotta balcanica. Lei e suo marito Gian Andrea Franchi sono fondatori dell’associazione Linea D’Ombra che sostiene i migranti medicandoli, curando i segni delle loro torture, offrendo cibo e assistenza. Questo impegno della cura – politico e non solo umanitario – è rivolto ai migranti che riescono ad arrivare a Trieste, nonostante i numerosi respingimenti attuati in Slovenia e a discapito delle violenze della polizia croata, finanziata da UE e da Frontex. Per il loro lavoro di denuncia e per l’impegno solidale al confine, Gian Andrea e Lorena sono stati recentemente colpiti dall’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina: la solidarietà anche a Trieste è stata trasformata in un crimine.
Proprio sulla scia di questi fatti, anche in Sicilia, in quanto frontiera meridionale della Fortezza Europa, sono state organizzate iniziative nella giornata di “Un ponte di corpi” del 6 marzo: a Catania, a Palermo e a Siracusa le donne e gli uomini solidali hanno dato luogo a presidi e conferenze stampa per ricordare la violenza delle politiche qui attuate, le morti in mare, il blocco dei soccorsi e la segregazione imposta ai migranti in tempi di pandemia e non, rivendicando la cura, la presenza sui confini e il lavoro di racconto e di memoria come pratiche di resistenza e di lotta.
Ricercare, testimoniare e denunciare
Il lavoro di memoria su quanto accade alle due sponde del Mediterraneo è sempre più necessario. In Sicilia ogni giorno riceviamo segnalazioni di persone scomparse dopo aver preso la strada del mare: si tratta di parenti, soprattutto di madri e sorelle che cercano un loro caro. Ogni giorno ci attiviamo, tessiamo reti, proviamo a dare risposte, ascoltiamo racconti e testimonianze, contattiamo istituzioni e organizzazioni e ci mettiamo personalmente alla ricerca per rispondere a questi dolori insepolti.
Non sempre riusciamo a dare soluzioni, a proporre strade efficaci, a poter dire con certezza se una persona è morta, se è in ospedale, se è salva o se è finita nel limbo della frontiera del mare: per quanto ci opponiamo alla cortina di indifferenza, le persone continuano a scomparire e le istituzioni non si adoperano per rintracciare i disparus alle frontiere.
Per questo è essenziale portare avanti un lavoro di memoria attiva: pochi giorni fa eravamo insieme ad altri attivisti al cimitero musulmano di Messina, dove abbiamo deposto dei fiori sulla tomba di Abdallah Said, minore somalo morto a Catania per encefalite dopo essere passato dalla nave quarantena, un contesto inadeguato dove le sue condizioni di salute si sono aggravate.
Nello stesso giorno al cimitero abbiamo anche presenziato, insieme ad alcuni ragazzi gambiani, al seppellimento del corpo di Illah Dansoko, un ragazzo gambiano morto nel quartiere catanese di San Berillo per malasanità e per razzismo di stato.
Abbiamo deposto fiori e un foglio di carta con i loro nomi e le loro date di nascita e di morte, ricordando le loro storie. Nel rispetto della loro dignità e dei loro diritti raccogliamo queste testimonianze emblematiche delle responsabilità europee. E in questi atti, davanti a coscienze sopite ed istituzioni complici, rivendichiamo che i veri crimini non sono le pratiche di solidarietà di ONG e solidali ma le politiche migratorie europee perpetrate lungo i confini, nelle navi quarantena o nelle città europee.
Memoria attiva come pratica trasformativa
La moltiplicazione di zone ostili alle migrazioni ha creato politiche di respingimento e negazione che uccidono in maniera sempre più attiva. Così dalla frontiera del Mediterraneo alla rotta balcanica, il prezioso impegno di donne come Lorena o come Daoudi continua a rappresentare una forma di opposizione all’indifferenza che ruota attorno al sistematico schiacciamento dell’umanità migrante. Senza una lotta per il riconoscimento, queste persone e questi corpi verrebbero consegnati all’oblio e resi anonimi, oltreché sottratti alle loro famiglie.
Nella collettivizzazione del dolore individuale e nell’amplificazione delle voci coraggiose delle donne, trova invece luogo questa denuncia di abusi e violazioni: crimini che hanno generato come risposta spazi di conflitto e di azione politica in cui si gioca il riconoscimento delle soggettività migranti, delle loro vite e dei loro diritti.
Allora, nel raccogliere le storie delle donne e degli uomini migranti facciamo della memoria una pratica attiva e trasformativa di questa condizione di violenza nel Mediterraneo: un esercizio di contro-narrazione e di solidarietà, un monitoraggio costante del confine. Lì dove abbiamo il dovere di stare con i nostri corpi e le nostre voci.
Silvia Di Meo
Borderline Sicilia