Criminalizzare chi soccorre, supportare chi si arma. Le nuove strategie di guerra ai migranti
La nave Golfo Azzurro dell’ONG Proactiva è arrivata giovedì mattina al porto di Catania con 490 migranti, tra cui diversi superstiti di un naufragio. Sono almeno otto le persone morte, trasbordate sulla nave Vos Hestia, anche se rimane sempre forte il sospetto che altri corpi siano scomparsi, inghiottiti troppo velocemente dal mare.
Nelle fasi di recupero e di arrivo risulta molto complicato ricostruire le dinamiche degli eventi e riuscire a dare un nome ed un volto anche a chi non è sopravvissuto, soprattutto quando tutto questo non viene chiaramente facilitato dalle operazioni di sbarco.
Indagare e criminalizzare
Sul molo transennato di Catania sono tornati diversi giornalisti, e l’attenzione sembra quasi essere focalizzata più sul sequestro della nave dell’Ong tedesca Jugend Rettet avvenuto mercoledì, che su ciò che succede al porto.
Nella giornata di ieri, 6 agosto, sappiamo che la Guardia Costiera libica ha respinto ben 137 profughi, intercettati a circa 40 km a nord di Tripoli, per rispedirli nei centri di detenzione tristemente noti per gli abusi che vi si commettono.
C’è chi riesce solo dopo mesi, e a caro prezzo, a sfuggire a tali orrori; l’Italia ha deciso di collaborare attivamente con chi riporta in quest’inferno uomini, donne e bambini.
La settimana appena trascorsa si è aperta con la questione della firma del codice di condotta elaborato dal governo italiano, da parte delle ONG impegnate nel Mediterraneo Centrale. Undici punti che sostanzialmente cercano di ricondurre le attività di ricerca e salvataggio in mare ad azioni strettamente sorvegliate e di assimilarle a quelle condotte dalle navi militari, imponendo la presenza di personale armato a bordo. Un atto gravissimo che dà il via libera alla totale militarizzazione dei recuperi, riconoscendo la priorità assoluta alle attività investigative anche durante le operazioni di soccorso ed assistenza. Parlare di azioni “umanitarie” davvero sembra non avere alcun senso, quando chi fugge dalle prigioni libiche e riesce ad evitare di essere rispedito nell’inferno che ha lasciato, si ritrova a bordo di navi con ancora i mitra puntati addosso.
Sappiamo cosa attende i migranti in Italia, dal momento dello sbarco in poi; un insidioso percorso ad ostacoli in cui ogni profugo deve prioritariamente dimostrare di non essere un criminale e dove ogni diritto di tutela spesso va conquistato sul campo. Da adesso in poi tutto questo inizierà probabilmente anche a bordo di quelle navi gestite dalle organizzazioni firmatarie del codice di condotta, Save The Children, MOAS, Proactiva Open Arms tra le prime. E chi si è dissociato da questo potrebbe avere molte più difficoltà a continuare la propria missione, in un clima di repressione e criminalizzazione che si sta sempre più surriscaldando.
L’episodio della Jugend Rettet e le accuse lanciate dimostrano quanto forte sia la volontà e purtroppo la facilità con cui si vuole fermare chi svolge un’azione esclusivamente umanitaria di salvataggio e soccorso, quando sono le politiche di chiusura della Fortezza Europa ad essere criminali. Chi non ha alternative continuerà a fuggire e la militarizzazione del Mediterraneo porterà solo ad aumentare episodi di violenza e morte.
Accoglienza in divisa
I migranti approdati giovedì a Catania hanno trovato ad attenderli il solito schieramento di forze armate e membri di Frontex, oltre agli operatori delle organizzazioni umanitarie che in questo sistema organizzativo hanno uno spazio molto più limitato di azione. “All’arrivo mi hanno fatto un sacco di domande sul mio paese, la città in cui sono nato, gli stati confinanti” ci ha riferito giorni fa un ragazzo sudanese sbarcato a Catania il mese scorso. Siamo testimoni del fatto che le operazioni di screening della nazionalità, svolte da Frontex, vengono spesso effettuate senza garanzie di tutela e portano a decisioni prese seguendo criteri discrezionali ed arbitrari, che culminano poi con i respingimenti e le espulsioni di molti. Il momento dell’approdo, dopo giorni di viaggio in condizioni estreme, è il momento in cui i migranti si giocano spesso il loro futuro e non la situazione in cui chi arriva può essere innanzitutto ascoltato e assistito.
In occasione dello sbarco della Golfo Azzurro le autorità hanno addirittura impedito l’accesso al team di Medici senza Frontiere, giunto al porto etneo per supportare psicologicamente i superstiti del naufragio e i loro compagni di viaggio. Un atto estremamente grave che dimostra chiaramente quale sia l’orientamento delle istituzioni: ostacolare il lavoro di tutela e cura incrementando lo spazio e le energie dedicate alle procedure di controllo, identificazione spesso forzata e selezione arbitraria, tra chi “conquista” il diritto di restare in Italia e chi no.
La disumanità delle politiche governative non risparmia nessun migrante: chi finisce in fondo al mare e chi sopravvive, siano essi uomini, donne o bambini. A Catania giovedì sono approdati nuovi orfani della guerra estenuante e quotidiana che l’Europa ha dichiarato ai profughi, tra i quali una bambina di soli due anni.
Altri morti che si vanno ad aggiungere alla lista delle circa 1800 persone decedute in mare soltanto nel 2017. I loro corpi sono giunti venerdì mattina al porto di Augusta, a bordo della nave Vos Hestia di Save the Children, insieme ad altri cittadini eritrei, siriani, libici, libanesi, egiziani e palestinesi. Nuove vittime ma anche nuove persone con cui poter rivendicare con più forza quei diritti che in molti vogliono cancellare.
Lucia Borghi
Borderline Sicilia Onlus