Cassibile, lo spettacolo dello sfruttamento

L’apertura del campo di Cassibile è stata raccontata attraverso le parole celebrative delle istituzioni e la rabbia razzista dei locali.

Siamo stati a Cassibile (SR) giornate intere – nei campi e nelle vie della città – ascoltando le voci dei lavoratori migranti per riportare l’attenzione sullo sfruttamento lavorativo che imperversa nelle terre siciliane.

Le parole intorno al campo

Venerdì 30 aprile, con un mese di ritardo sui tempi annunciati, il campo istituzionale di Cassibile  – le “casette”, il “villaggio”, l’ostello” per migranti, nelle varie formulazioni utilizzate da stampa e politica – ha finalmente iniziato ad accogliere i lavoratori. Non tutti, ovviamente, ma solo quelli che hanno un contratto di lavoro, un documento d’identità e un permesso di soggiorno. Non tutti, poi, perché, come già abbiamo raccontato, i posti non sono neanche lontanamente sufficienti ad ospitare tutti i lavoratori arrivati a Cassibile in questi due mesi: dovevano essere 120, già troppo pochi; sono diventati 68 (17 container da quattro posti l’uno), per rispettare le normative anti-contagio.

Per comprendere la posta in gioco a Cassibile bisogna ascoltare le parole che nell’ultimo mese, e in particolare negli ultimi giorni, si sono fatte sempre più fitte. E bisogna poi confrontarle con i fatti, con la materialità della vita quotidiana delle persone che lavorano la terra in Sicilia orientale. La stampa ha dato risalto alle parole dei politici e delle istituzioni, e alla rabbia dei Cassibilesi. Noi abbiamo osservato tutto questo stando a Cassibile giornate intere e lo abbiamo fatto ascoltando le voci dei lavoratori.

Il giorno che di tutta questa vicenda verrà ricordato, e che già ha fatto il giro della stampa locale e nazionale, è giovedì 29 aprile, data dell’inaugurazione del campo. “Un esempio anti-caporalato”, “Cassibile è una realtà di integrazione”, “lo meritavano i residenti di Cassibile e i lavoratori stagionali”, si complimentano a vicenda il Comune e la Prefettura di Siracusa, nonché la Regione, durante la conferenza stampa di inaugurazione del campo, alla presenza del Capo del Dipartimento delle Libertà Civili del Ministero degli Interni, Michele Di Bari, il braccio destro della Ministra Lamorgese, incaricato di gestire l’accoglienza – che nei fatti si traduce più che altro in contenimento e repressione – dei migranti che arrivano in Italia.

Il campo è costato 242 mila euro e sarà gestito dalla Cooperativa Passwork e dalla Croce Rossa, anch’essi presenti all’inaugurazione. Chi vivrà all’interno non potrà cucinare in maniera indipendente, ma saranno serviti pasti una volta al giorno. Verrà anche fornito un servizio di navette per portare i lavoratori nei campi, ma il contratto con la ditta operatrice del servizio non è stato ancora firmato. “Così si sconfigge il caporalato”, dicono all’inaugurazione, ma siamo ormai a stagione inoltrata e le organizzazioni gestiranno il campo soltanto per due mesi, una prospettiva come minimo limitata.

Le alte cariche delle istituzioni hanno però presentato il campo come la risoluzione ai problemi di tutti: i lavoratori e gli abitanti di Cassibile. E invece, a contrada Palazzo, dove sorge il campo, una cinquantina di residenti ha dato vita ad un presidio di protesta, sfilando con maglie e cartelli “#NoVillaggio”, “Meno ghetto, più integrazione”, “Più servizi per i cittadini”, mentre alle loro spalle campeggiava uno striscione “Vergogna Italia di merda”. Lo striscione, almeno inizialmente, poteva anche suscitare qualche ironia visto che alla testa del presidio c’erano un esponente politico della destra nazionalista e un rappresentate del comitato “Giovani Cassibilesi”, con tanto di maschera e bandiera italiana, delle stesse idee politiche. Ma l’umorismo finisce ascoltando le parole di rabbia di questi abitanti, che se la prendono con uno stato che non ha mai asfaltato le strade della contrada, in cui da cinquant’anni vengono fatte promesse senza che poi vengano mantenute.

Il disagio è reale, ma la politica, in ogni caso, lo strumentalizza. E così gli aitanti politicanti locali hanno iniziato a soffiare il fuoco dell’odio razzista, “prima si risolvano i problemi dei residenti”, “noi qui non li vogliamo”, la protesta contro il campo è diventato un pretesto per prendersela con i lavoratori migranti che ormai da vent’anni sono i lavoratori essenziali di grossa parte del comparto agricolo siciliano. Hanno preso un disagio reale – l’abbandono delle periferie e del Sud da parte delle istituzioni – e lo hanno trasformato con piroette retoriche in un comizio pieno di sciovinismo e di apologia verso i padroni, a danno tanto dei lavoratori in generale quanto dei lavoratori stranieri.

Ed è così che si è arrivati a momenti di alta tensione. Mentre la polizia sbarrava l’ingresso al campo, impedendo ai contestatori di rovinare l’inaugurazione, una rappresentanza della CGIL è arrivata con una bandiera è stata aggredita dalla folla per poi essere allontanata dalla Digos presente sul posto. Il lavoro dunque è rimasto senza rappresentanza a questa inaugurazione.

A farsi largo è invece la tensione e presto, ne siamo tristemente abbastanza sicuri, la paura.

Il campo è infatti collocato alla fine di contrada Palazzo: lo si può raggiungere soltanto attraversando la strada principale del quartiere dove abitano i contestatori. I lavoratori si troveranno dunque costretti ad attraversare un luogo ostile diverse volte al giorno. E una prima dimostrazione di come questa struttura possa diventare ostaggio della rabbia è già arrivata la notte prima dell’inaugurazione: i tubi fognari che collegano la contrada, e il campo, al resto della città sono stati sabotati, provocando sversamenti di liquami nei pressi del luogo dove in poche ore avrebbero sfilato le istituzioni.

La vigilanza h24 della struttura, che è stata presentata come un diritto dei lavoratori, è dunque in realtà il risultato delle crescenti tensioni in quartiere e dell’infelice collocamento del campo. Il risultato, già abbastanza evidente, è che si sta venendo a creare una situazione dove l’intervento umanitario si mischia con pratiche di sorveglianza ai limiti del detentivo, così come succede dovunque si adottino soluzioni emergenziali a problemi strutturali.

“Diamo dignità ai lavoratori”, dicono. Eppure, sembra sempre più che questi vengano trattati come corpi docili da controllare in ogni singolo momento della giornata: dal letto fino ai campi, senza però prevedere controlli a tappeto sul rispetto delle normative contrattuali dove lavoreranno. Non sorprende, dunque, che a questo approccio i lavoratori abbiano risposto finora con diffidenza, nonostante le condizioni abitative totalmente disastrate con cui si sono dovuti confrontare nell’ultimo mese.

“Noi stiamo facendo il Ramadan, vogliamo poter cucinare e mangiare insieme, e al campo non si può”, dicono alcuni lavoratori che di esser trattati come bambini non hanno voglia; “Ma che è una prigione?”, si chiedono. Si confrontano con lucidità e un pizzico di amarezza per questa apertura rispetto alla quale non sono stati né interpellati, né invitati, né spesso neanche avvisati, “a Cassibile non ci sono leggi per il lavoratori”. Alcuni di loro hanno provato ad avvicinarsi al campo durante l’inaugurazione, non per celebrare ma per iscriversi alle liste per il campo, ma sono stati allontanati dalla polizia “per il vostro bene”.

 

Il lavoro sfruttato, dentro o fuori il campo

Dietro lo spettacolo di questo palcoscenico dove hanno sfilato istituzioni e capipopolo, dietro il finto ordine di un villaggio ghetto dove trovano spazio tanto le retoriche della sicurezza e della legalità quanto gli slogan razzisti e xenofobi, continuano ad esistere i lavoratori migranti che ogni giorno, da due mesi – nel bel mezzo della propaganda regionale e nazionale sul dormitorio di contrada Palazzo – permettono che la stagione di raccolta agricola vada avanti.

Quei migranti che raccolgono patate, finocchi e carote nei campi della Sicilia orientale. Quei migranti che ogni giorno alle cinque del mattino – che vengano dal campo istituzionale, dalle case affittate o dalle grotte dove si rifugiano – si recheranno sulla via principale del paese e verranno reclutati e caricati sui furgoncini dei caporali, nell’invisibilità, fuori dall’occhio dei riflettori.

Che siano dentro le maglie del sistema umanitario-detentivo del campo o che siano negli interstizi informali dell’autorganizzazione, i migranti vanno incontro al lavoro sfruttato.

Dai racconti dei lavoratori abbiamo ricostruito che i ritmi del loro lavoro prevedono il carico quotidiano di circa 100 cassette da 20 kg ciascuna, con salari che oscillano tra i 30 e i 40 euro al giorno per circa 9/10 ore lavorative. Ciò avviene spesso con la retribuzione di paghe fittizie a fronte di orari di lavoro non corrispondenti al vero, per cui i soldi percepiti dai braccianti sono sempre meno di quelli dovuti.

È il cosiddetto lavoro grigio – diverso dal lavoro informale vero e proprio – quello che imperversa nel siracusano: un sistema consolidato tra le aziende locali, con poche eccezioni, che evita il lavoro in nero e senza contratto, ma si fonda comunque sull’abuso e sulla violazione dei diritti.

Possedere il contratto lavorativo, infatti, non è sinonimo di regolarità e di giusto salario. Tant’è che i braccianti “regolari” sono ulteriormente sfruttati con ennesimi tagli sulla loro paga: ovvero i soldi dovuti ai caporali per il costo dei servizi di trasporto (dai 3 ai 7 euro), i soldi da loro decurtati sul lavoro a cottimo, per ogni cassetta riempita.

“Veloci, veloci!”, dicono i caporali ai braccianti che riempiono cassette nei campi. Se non si mantiene il ritmo dello sfruttamento si è fuori: veloci a lavorare, veloci ad abbandonare il campo informale sgomberato, veloci a rincorrere un posto per dormire nel villaggio, veloci a ripartire per un’altra tappa stagionale, veloci a dimenticare le violazioni che sulla loro pelle si consumano. Ai migranti è richiesta obbedienza immediata, come bestie da soma.

Il campo istituzionale non cambierà queste condizioni strutturali. In questo sistema assodato da anni, le ingiustizie legate allo sfruttamento lavorativo si compiranno indisturbate, poiché non c’è nessun interesse a colpirlo. Se mai, l’intenzione è di controllarlo e gestirlo.

Esclusi o inclusi nel campo, i migranti continuano ad essere vittime di un sistema criminale: perché il “villaggio” di Cassibile non è pensato per combattere il caporalato, ma per disciplinare e controllare i suoi abitanti sfruttati, per ordinare i braccianti che ogni anno transitano per la città dentro una struttura istituzionale legittima e normata, per nascondere ancora una volta l’umanità migrante agli occhi di chi non vuol vederla.

In questo modo, il campo sarà tutt’altro che “esempio di integrazione” e non garantirà alcuna legalità: favorirà invece la marginalizzazione dei migranti, i quali saranno strumentalizzati dalle istituzioni e dai razzisti, sfruttati da caporali e dai padroni, gestiti in quanto manodopera da disciplinare, esclusi dalla presa di decisioni che li riguardano, privati della dignità e delle tutele.

 

Stato debole con i forti

Tra meno di un mese sarà l’anniversario della morte di Siddique Adnane, 32enne pachistano ucciso l’anno scorso a Caltanissetta con cinque coltellate, dopo aver denunciato i caporali che sfruttavano dei braccianti agricoli suoi connazionali. Non è stato il primo né sarà l’ultimo a rischiare la vita nelle campagne del Meridione. E per lui la giustizia ancora non è arrivata.

Dalla morte di Siddique in Sicilia la situazione non è cambiata affatto: lo sfruttamento lavorativo dei migranti continua ad essere un fenomeno strutturale, una disfunzione criminale del sistema produttivo che cresce mentre lo Stato, complice, continua a lasciare gli stranieri nell’irregolarità giuridica e nel lavoro sommerso, alimentando vessazioni e abusi da parte dei più forti.

Invece di costruire muri e ghetti che escludono i migranti, basterebbe controllare le aziende che beneficiano della selezione di manodopera svolta per loro dai caporali, smettere di lucrare sui migranti criminalizzati che non hanno il permesso di soggiorno, sanzionare le ditte che evadono i contributi ed ingrassano i caporali. Si potrebbe poi sostenere le filiere corte, etiche e sostenibili, come già è stato proposto – con progetti validi e concreti – da realtà virtuose di lotta al caporalato.

Invece, retoriche e passerelle – che ancora una volta hanno escluso i migranti – hanno finito per emergere a livello mediatico, silenziando le voci in grado di restituire la gravità di questa realtà normalizzata ed accettata.

Ma al buio dei riflettori del palcoscenico – nella periferia dei campi di raccolta siciliani dove gli slogan non arrivano – i diritti continuano a marcire come frutta al sole.

A Cassibile e in Sicilia, ancora una volta, è andato in scena lo spettacolo di uno Stato debole con i forti che si accanisce contro gli sfruttati.

 

Silvia Di Meo

Emilio Caja

Borderline Sicilia