Campobello 2021. Emergenza strutturale e morte di un lavoratore
Quest’anno a Campobello l’autunno e la stagione della raccolta sono stati segnati dall’incendio avvenuto nella notte tra il 29 e il 30 settembre, in cui ha perso la vita Omar Baldeh, e a seguito del quale le risposte sono state – come sempre – solo di carattere emergenziale.
La mentalità con cui si strutturano gli interventi a Campobello/Castelvetrano da anni ha contribuito a causare questo incendio. Perché vivere in un posto come l’ex-cementificio Calcestruzzi, dove non c’è accesso a impianti di elettricità, gas e acqua vuol dire che devono essere necessariamente utilizzate bombole a gas e generatori a petrolio per cucinare, riscaldare o caricare il telefono. L’incendio non è dunque frutto di una disgrazia.
Come ha sottolineato un lavoratore Senegalese, che è stato in questi mesi a Fontane d’Oro, “fare la raccolta delle olive è un lavoro dignitoso, ma questo…è un disastro”. Si è guardato intorno tra le tende e le baracche costruite dai lavoratori, i moduli abitativi forniti dall’UNHCR e gestiti dalla Prefettura per fronteggiare l’emergenza, e l’immondizia che pure là dentro ha cominciato ad accumularsi. Sembra che con quel “questo” intendesse qualcosa di più ampio: le condizioni sistemiche sul piano economico e legale, gli eventi tragici, e le complessità politiche che hanno creato questa realtà precaria.
La resistenza dei lavoratori a Fontane d’Oro
Dopo l’incendio, grazie anche alla protesta portata avanti dai lavoratori, tanti si sono spostati a Fontane d’Oro, un ex oleificio confiscato alla mafia. Scegliendo dopo l’incendio, di spostarsi a Fontane d’Oro – dove ci sono docce, elettricità e asfalto invece di terra, – i lavoratori hanno ribadito due necessità fondamentali: da un lato rimanere insieme e non essere sparpagliati in strutture emergenziali in cui molti di loro non potevano entrare perché privi di documenti; dall’altro avere accesso a condizioni di vita più dignitose. E a Fontane d’Oro hanno ricostruito, grazie ai fondi di una raccolta crowdfunding, al sostegno di molte donazioni, e al supporto di alleati soprattutto locali, una tendopoli per lo più auto-gestita.
Secondo rappresentanti di istituzioni e organi di polizia, a Fontane d’Oro sarebbe dovuto sorgere un campo istituzionale in cui però, dicevano, non si sarebbero chiesti i documenti. “Perché dovremmo credervi?” – hanno risposto i lavoratori – “Li avete sempre chiesti!”.
Nel frattempo, alla Prefettura – tramite la Regione – sono stati consegnati diversi moduli abitativi dall’UNHCR ed è arrivato il Capo di Gabinetto del Ministero degli Interni, Michele di Bari, per richiedere interventi che avrebbero potuto “favorire” un censimento dei lavoratori stagionali. Così inizialmente i moduli sono stati costruiti nella parte dell’ex oleificio dove si trova il SAI di Campobello, e poi si è proceduto alla rimozione delle tende dei lavoratori montate dall’altro lato, per costruire altre ‘casette’. Formalmente, e diversamente da quello che si era detto, per entrare in queste casette vengono richiesti non solo i documenti, ma anche il green pass. Attualmente ci sono 25 moduli abitativi, ogni uno con 5 posti letto, gestiti dalla Croce Rossa.
Le criticità a Fontane d’Oro
Usando le parole di un lavoratore, se l’ex-Calcestruzzi è il campo ‘brutto’, Fontane d’Oro si può chiamare invece il campo ‘bello’, ma sempre ‘campo’ è: ovvero, la situazione è migliore, pur avendo tante criticità.
Il freddo: come dice un altro lavoratore, sempre Senegalese, abitante a Fontane d’Oro, c’è freddo (fa il gesto del freddo universale, strofinando le braccia con le mani) e “l’acqua è fredda”, le ‘case’ sono fredde. Per riscaldarsi, bisogna riscaldare l’acqua (pagando qualcuno come all’ex-cementificio), o stare vicino a uno dei negozietti del campo, dove c’è una piccola stufa.
I bagni e la questione di genere: una donna Senegalese – arrivata a Fontane d’Oro dopo l’incendio, ad offrire un servizio di ristorante ai lavoratori – invece punta il dito sulla mancanza di privacy e di pulizia dei bagni esistenti. Una mattina ce li fa vedere: sporchi e con l’immondizia ovunque. All’inizio per un po’ li ha puliti lei. “Potrebbero pagare qualcuno per venire qui la mattina a farlo”, prova a suggerire. Ancora peggio per lei era la mancanza di privacy che impatta soprattutto le donne: “Forse per gli uomini va bene, ma per noi no.” C’è solo una grande ‘tenda’ di plastica che però se si alza per entrare in una stanza si alza per tutti. Lei ha pagato una cinquantina di euro per mettere una porta di legno vecchio e ‘brutto’ che almeno le garantisce un po’ di privacy, ribadendo le difficoltà specifiche per le donne che vivono lì.
La questione abitativa: tanti lavoratori si sono messi in lista per avere un posto, perché questi moduli comunque offrivano più riparo dalla pioggia rispetto alle tende, come spiegava la stessa signora Senegalese ma anche molti altri. Una parte di lavoratori, però, ha ribadito di non voler entrare in questi moduli, che, diversamente da baracche o tende, non erano costruite da loro. “Questa non è casa mia,” ha detto un lavoratore, accennando ad una delle ragioni perla quale non è una soluzione ideale o di lungo termine. Uno dei commenti più forti di fronte ai moduli abitativi è stata “belle…ci mettiamo le galline.”
Lo sfruttamento lavorativo: per un altro lavoratore, che invece ha continuato a dormire in tenda, il problema maggiore non è la casa, ma le condizioni di lavoro. “È la prima volta che vengo qua, ma non verrò mai più,” ha detto, aggiungendo che gli avevano assicurato che si poteva guadagnare, ma in realtà “si guadagna solo abbastanza per sopravvivere, senza risparmiare, e il lavoro è duro.” Sottolinea anche il problema del contratto (che era stato promesso ma mai firmato). “Se avessi potuto lavorare bene, avrei potuto vivere tranquillo anche in tenda, non mi importerebbe così tanto”. Tanti altri hanno parlato di dolori al corpo dovuti al lavoro durissimo e lungo.
La fornitura di servizi: l’azione istituzionale-umanitaria si muove a tentoni, senza una visione chiara, con progetti nuovi ogni anno che faticano a sostenere davvero le persone che vivono nel campo. Tanti lavoratori non sapevano dell’esistenza, per esempio, di un presidio sanitario mobile negli insediamenti alcuni giorni della settimana, che, per vari motivi, non sembra essere diventato un punto di riferimento per tutti i lavoratori. Molti di loro sono stati invece accompagnati all’ospedale o al pronto soccorso a Castelvetrano, dove si registra la mancanza del servizio di mediazione linguistico-culturale oltre che la mancanza di una sensibilizzazione ai temi della diversità culturale come policy istituzionale chiara. Accompagnando un giovane lavoratore che si era bruciato nell’incendio, per esempio, abbiamo assistito alla scena in cui una dottoressa insisteva che si doveva “lavare i piedi”, e gli chiedeva se “si sapeva lavare i piedi”, dimostrando di ignorare la realtà dentro l’insediamento che distava solo qualche chilometro e dove non c’è sempre abbastanza acqua per lavarsi i piedi.
Queste e altre criticità nell’offerta di servizi e nell’inefficacia delle istituzioni locali risiedono in una mancanza di volontà politica e istituzionale di cambiare le cose. Tali criticità però sottolineano anche la necessità che le associazioni continuino a denunciare e mettere pressione sulle istituzioni durante tutto l’anno e non solo durante il periodo della raccolta, per cercare di far sì che le promesse vengano mantenute e per non ricominciare da capo ogni anno.
L’abbandono all’Ex-Calcestruzzi
Dopo l’incendio del 29/30 settembre, alcune persone sono rimaste all’ex-Cementificio (attualmente ci sono almeno una cinquantina di persone che ci vivono stabilmente) e hanno ricominciato a ricostruire sulla cenere dell’incendio.
Nonostante lo sforzo per ricostruire, l’ex Calcestruzzi è ad oggi un insieme di odori di monossido, con cumuli di immondizia bruciata e nuova, amianto, e un generale senso di abbandono e violenza, che include anche la violenza sulle donne, rese invisibili all’interno di un luogo invisibile, in un contesto dove la salute sessuale riceve bassissime attenzioni dalla società, con l’eccezione di alcuni operatori. C’è, per esempio, una grave carenza di consultori a Campobello e Castelvetrano.
La montagna di immondizia rimasta fuori il campo in questi mesi sembra invece essere un altro segno forte di quanto le autorità se ne infischino delle condizioni di vita dei lavoratori.
Conclusioni: la necessità di uscire dall’emergenza
“È da quattro anni che vivo qua,” dice un lavoratore stagionale all’ex-Calcestruzzi, “e che vedo i bianchi con i quaderni scrivere nomi e numeri e parlare di documenti, ma non cambia niente.”
La frustrazione di questo lavoratore è chiara e comprensibile. Le politiche e le dinamiche a Campobello, un paese di 11.000 abitanti con un’economia che vive del lavoro di queste persone, sono complesse, caratterizzate da enti che hanno l’abitudine di scaricare le responsabilità uno sull’altro, dimenticando le persone più precarie ed importanti. Sono anni che viviamo in un circolo vizioso di emergenzialità durante la stagione, e relativo silenzio durante il resto dell’anno. Si dovrebbero avanzare invece iniziative con un respiro di lungo termine, come per esempio, oltre quelle già elencate, una mappatura di case sfitte a Campobello.
Il punto di partenza per tutto questo, come ci ha insegnato questa stagione a Campobello, è partire dal vero ascolto delle voci, anche nella loro eterogeneità, di chi lavora la terra e vive in questi luoghi.
Redazione Borderline Sicilia