Sicilia occidentale: il fallimento che pagano le persone in cerca di una speranza
L’elevato numero di comunità alloggio per minori nella provincia di Agrigento (più di 40) ne rende difficoltoso il monitoraggio. Molti dei centri di primissima accoglienza per minori chiamati di “alta specializzazione”, di specializzazione hanno soltanto il mal funzionamento. Le situazioni più critiche si riscontrano a Licata, Palma di Montechiaro e Porto Empedocle, ma le segnalazioni che riceviamo sono numerose.
Alcuni operatori di questi centri sembrano non conoscere neanche cosa sia un modello C3 (modello per la formalizzazione della domanda di asilo), figuriamoci l’utilità e la necessità della presenza di un legale o di un tutore. La mancanza cronica di figure professionali fa sì che i minori vivano nell’indifferenza degli enti gestori. Per fortuna ci sono anche (pochi) operatori che riescono a sopravvivere in questa giungla e che cercano di svolgere il proprio lavoro con dignità.
Il proliferare di prassi istituzionali discriminatorie e di popolazioni locali che non sopportano i giovani migranti che vagano per le strade dei centri urbani e pensano che questi siano utili soltanto se fanno lavori pesanti e malpagati, crea il paradosso secondo il quale il minore (ma non soltanto) straniero è accettato soltanto se disposto a farsi sfruttare! Guai invece a chi si lamenta se l’acqua per le docce è limitata a poche ore al giorno, o se il cibo scarseggia o non è di buona qualità, o se non si riesce a contattare i propri cari a casa per mesi e mesi.
In alcuni casi i pregiudizi di alcuni operatori superano quelli fondati sulla diversità di religione o del colore della pelle, e nascono dal semplice taglio dei capelli: “sin dal primo giorno che è entrato in questa comunità ho capito che avrei avuto problemi, perché quel taglio di capelli dice tutto!”. La dice lunga il fatto che l’operatore in questione abbia una laurea in economia, ma lavori all’interno di una comunità come mediatore.
In attesa di ricevere i dovuti permessi per visitare i centri e per cercare di capire meglio le dinamiche che stanno a monte di queste storture, Borderline Sicilia ha messo a conoscenza la competente Prefettura e gli operatori di Save the Children (i quali per mandato possono accedere soltanto ai centri di primissima accoglienza controllati dalle prefetture e non nelle comunità alloggio che invece sono di “competenza” comunale) di quanto succede, nella speranza che la percentuale di allontanamenti da questi centri attualmente in crescita esponenziale si fermi, così come il livello di arrabbiatura e le continue proteste.
Proteste che non finiscono mai, nei CAS, negli hub e negli hotspot, perché nonostante la presenza di alcuni operatori che si adoperano per tamponare le falle, il sistema è ormai un colabrodo. Negli hotpspot di Milo (Trapani) e contrada Imbriacola (Lampedusa) ci sono delle stanze che verrebbero usate di fatto come CIE, in cui vengono trattenuti illegittimamente i maghrebini in attesa di rimpatrio. La scorsa settimana da Lampedusa sono stati rimpatriati 43 tunisini, dopo avere trascorso dentro l’hotspot più di 10 giorni, controllati a vista e isolati dal resto delle persone presenti, ed infine trasferiti su di un bus della polizia, scortati da due camionette, fino all’aeroporto “Falcone e Borsellino” di Palermo per essere rispediti in volo a Tunisi.
Notizie di prassi illegittime arrivano anche dall’unico hub siciliano Villa Sikania a Siculiana (Agrigento), dove 200 eritrei da circa 10 mesi attendono la definizione della procedura di una relocation che ormai appare ai più pura illusione. Gli altri migranti, provenienti da Lampedusa, transitano da Villa Sikania per giorni o settimane per poi essere trasferiti al nord. L’immagine delle centinaia di eritrei (che non si sono dati alla fuga nei mesi scorsi) dimenticati nel contenitore/hub è l’istantanea del fallimento europeo, un fallimento che pagano le persone in cerca di una speranza.
Alberto Biondo
Borderline Sicilia Onlus