Lampedusa, vincono gli eritrei – No alle impronte digitali
La Repubblica – LAMPEDUSA – Prima la protesta, poi la vittoria. Niente impronte digitali, come chiedevano i circa 200 immigrati, quasi tutti eritrei, che ieri sono usciti dal Centro di accoglienza per far sentire la loro voce. E’ questo l’esito di una giornata di trattative, speranze e paure. Fino all’esultanza finale. Saranno trasferiti tutti, in piccoli gruppi, verso altre località italiane e senza prendere le impronte digitali.
“Zeinagebriel nella mia lingua significa Arcangelo Gabriele. Ma tu puoi chiamarmi Zeina”. Zeina ha ventisei anni e aspetta paziente seduto all’ombra di piazza Garibaldi. Insieme a lui ci sono circa altri duecento ragazzi del Corno d’Africa. Si tratta degli eritrei, etiopi e somali – tra cui molti minori – arrivati nelle ultime settimane qui a Lampedusa. Per due ore va avanti la trattativa. Da una parte, Giusi Nicolini come rappresentante delle istituzioni italiane, e il parroco Don Stefano Nastasi. Dall’altra, i portavoce della protesta eritrea. In mezzo, a mediare via telefono, Don Mosé Zerai, sacerdote eritreo e direttore dell’agenzia Habeshia, punto di riferimento per la maggior parte dei migranti che attraversano il Mediterraneo.Zeina è stanco. Fa caldo. Ma aspetta. Ieri è scappato insieme ai suoi connazionali dal centro di primo soccorso e accoglienza di Lampedusa che, in modo pacifico e compatto, hanno sfilato per l’isola, spiazzando forze dell’ordine e turisti. Hanno passato la notte dormendo nella piazza. E stamattina presto, hanno iniziato a pregare con il volto rivolto verso la facciata della chiesa, mentre i primi fedeli lampedusani iniziavano ad affluire per la messa domenicale. “Noi protestiamo per un motivo molto semplice – spiega Zeina – ci rifiutiamo di rilasciare le nostre impronte digitali. Non vogliamo essere identificati in Italia perché, se lo facciamo, poi siamo costretti a chiedere asilo qui”. Questo, infatti, è quanto stabilisce il regolamento di Dublino, secondo il quale l’asilo politico può esser richiesto nel primo paese dell’Unione Europea in cui si viene identificati.Ma perché queste persone non vogliono rimanere in Italia? “Abbiamo amici e parenti sparsi nelle città italiane: ci dicono di guardare a questo paese solo come a una terra di transito, perché qui c’è troppa povertà e i diritti non vengono garantiti, né per gli italiani né per noi stranieri. Per questo motivo noi non vogliamo rimanere qui. Vogliamo essere liberi di continuare il nostro viaggio verso i paesi del nord Europa. Vogliamo chiedere asilo nei paesi che sono veramente in grado di accoglierci. Se rimarremo qui, che futuro avremo? Finiremo a vivere per strada!”Zeina è arrivato a Lampedusa lo scorso 8 luglio. Proprio il giorno successivo alla visita di Papa Francesco. Con lui, sul gommone partito dalla Libia, c’erano anche altre novantaquattro persone, tra cui quattro bambini di circa tre anni e trentaquattro donne, di cui quattro incinte. “Eravamo ancora in alto mare quando la Guardia Costiera è arrivata e ci ha fatti salire a bordo. Hanno preso solo le nostre vite mentre il gommone lo hanno rotto e lasciato lì”. Appena arrivati sulla banchina di Lampedusa hanno ricevuto un po’ di acqua. “Subito dopo, ci hanno portati tutti al centro di accoglienza” spiega Zeina, continuando “senza fare distinzione tra malati e minori. Con noi c’era anche una donna diabetica e un mio caro amico di sedici anni con la tubercolosi”. Nel centro sono rimasti più di dieci giorni. Intanto gli arrivi via mare non si sono mai fermati, mentre i trasferimenti da Lampedusa al resto d’Italia diventano sempre più lenti e sporadici. Attualmente nel centro di Lampedusa ci sarebbero più di settecento persone. Tra questi, un numero significativo di minori.“Siamo rimasti nel centro più di dieci giorni. Qui abbiamo dormito sul terriccio, sotto gli alberi, su lenzuola improvvisate a letti. I malati e i bambini stavano sempre peggio. Ma niente, non li trasferivano. Dicevano: se ci date le impronte digitali vi trasferiamo in un posto migliore di questo”. Alcuni parenti di Zeina vivono come rifugiati in Svezia e gli raccontano che lì l’accoglienza è fatta di percorsi scolastici e abitativi dignitosi e che, dopo qualche anno, i rifugiati riescono a sentirsi membri della società a tutti gli effetti. “Io non voglio stare in Italia perché, se anche gli italiani non hanno lavoro, come posso sperare di averlo io? Provate a capirci! Abbiamo bisogno di umanità!”Intorno alle cinque del pomeriggio il sole è ancora alto. All’improvviso, dal retro della chiesa escono i portavoce eritrei, il sindaco Giusi Nicolini e i funzionari della polizia a cui da ventiquattro ore è stata affidata la mediazione con la piazza. Tutti i manifestanti si siedono sul sagrato. Zeina si unisce a loro. In silenzio, ascoltano i loro portavoce che, in tigrino (la lingua parlata in Etiopia), fanno il resoconto della mediazione. Passano pochi minuti ed esplodono in un lungo applauso. Sono felici. Chiedono di fare una foto con il sindaco Nicolini. I manifestanti si alzano e iniziano a pulire la piazza che hanno occupato fino a quel momento.Zeina si avvicina: “Abbiamo vinto! Ci trasferiranno tutti, in piccoli gruppi, verso altre località italiane e senza prendere le impronte digitali”. L’accordo raggiunto prevede il rientro immediato e volontario dei migranti nel centro di accoglienza dell’isola. In cambio, le autorità italiane si sono impegnate a non identificarli attraverso la rilevazione delle impronte digitali. “Lo so, potrebbero non mantenere la promessa” dice Zeina. Poi sorride e aggiunge: “Ma io voglio fidarmi”.
Valeria Brigida