Lampedusa, scaricabarile sulla strage. Così sono annegati i bimbi siriani
La nave Libra della Marina militare era a poche miglia dai profughi. Ma per ore non è stata coinvolta nelle operazioni di salvataggio. La prima chiamata di soccorso arrivata alla centrale della Guardia costiera. Che ha passato l’intervento a Malta nonostante gli italiani fossero più vicini al punto del naufragio. “Abbiamo rispettato gli accordi”. Ecco come l’11 ottobre sono morte oltre 260 persone. La ricostruzione esclusiva de “l’Espresso” di Fabrizio Gatti
La piccola Joud Mustafa sta giocando sotto il sole a “Subway surfer” sull’ipad del papà. A 3 anni un viaggio così scomodo sul ponte affollato e sporco di un peschereccio è una noia senza fine. Poi anche Joud si addormenta stremata, nelle braccia della mamma. Da due giorni non hanno da mangiare. Non c’è più acqua da bere. Ma un mormorio tra i 480-500 passeggeri finalmente diffonde una buona notizia. La centrale operativa della Guardia costiera in Italia ha risposto alla richiesta di soccorso lanciata con un telefono satellitare da un medico a bordo. Molti ringraziano Dio e gli italiani. Sono le 12.26 di venerdì 11 ottobre. Comincia così un conto alla rovescia di protocolli e burocrazia che nel giro di cinque ore ucciderà Joud e la sua mamma. E con loro, tra i sessanta e i cento bambini, le loro famiglie e decine di ragazze e ragazzi siriani che credevano di salvarsi in Europa. Una roulette agghiacciante di numeri: almeno 268 annegati, solo 26 corpi recuperati, 212 sopravvissuti. E il finale inaccettabile nella sua assurdità: per tutto il pomeriggio la nave Libra della Marina militare italiana è vicinissima ai profughi, appena dietro l’orizzonte. Tra le 27 e le 10 miglia, un’ora, mezz’ora di navigazione o poco più. Ma né l’Italia né Malta chiedono per ore il suo intervento.
La Libra ha un ponte grande, l’elicottero a bordo e marinai esperti che potrebbero dare aiuto a tutti i naufraghi. La comandante, il giovane tenente di vascello Catia Pellegrino, è un’icona della Marina. Da quella breve distanza il peschereccio che sta affondando è sicuramente visibile sul loro schermo radar. Ma nessuno dà ordini, nessuno prende decisioni che potrebbero ancora salvare 268 persone. La Libra viene autorizzata a raggiungere il punto soltanto alle 17.14. A quell’ora la nave dei bambini si è rovesciata da sette minuti e il mare è una distesa di persone vive e morte. I ritardi riducono drasticamente anche il tempo di luce a disposizione per le ricerche. Calato il buio, chi è in acqua rischia di non essere avvistato dai soccorritori e di andare alla deriva verso una fine di stenti, freddo e fame. Forse è per questo che qualcuno tra i siriani giura di aver notato bambini e adulti aggrappati a pezzi di legno del peschereccio, ma di non averli poi ritrovati tra i superstiti riportati a terra.
“L’Espresso” ha scoperto quale sala operativa ha raccolto la prima richiesta di aiuto. Quella che avrebbe potuto cambiare il corso degli eventi. È la centrale di coordinamento di Roma del comando generale delle Capitanerie di porto, una struttura della Marina inquadrata nel ministero dei Trasporti da cui dipende l’attività della Guardia costiera. L’imbarcazione carica di profughi siriani affonda a 113 chilometri da Lampedusa e a 218 chilometri da Malta. Causa del disastro: l’eccessivo numero di passeggeri obbligati a salire a bordo dai fratelli Khaled e Mohamed, spregiudicati trafficanti del porto di Zuwara in Libia, e le raffiche di mitra sparate la notte precedente da una motovedetta libica che hanno forato lo scafo. Causa del ritardo nelle operazioni di salvataggio: lo scaricabarile delle responsabilità tra l’Italia e Malta nelle procedure di ricerca e soccorso che in passato ha già provocato morti e dispersi. Per ricostruire in questo articolo la cronologia della tragedia sono stati analizzati i dati di quasi tredicimila posizioni delle navi in transito: coordinate, velocità e direzione, dalle 11 del mattino a mezzanotte di quel venerdì. Un laboratorio in Inghilterra si è occupato dell’estrazione dei numeri di emergenza memorizzati in un telefono recuperato dal mare. Ai dati geografici e scientifici, si aggiungono la testimonianza dell’ammiraglio Felicio Angrisano, comandante generale del Corpo delle capitanerie di porto e della Guardia costiera, e i racconti di alcuni ufficiali della Marina militare.
Il punto di non ritorno verso la strage viene superato alle 13 dell’11 ottobre: a quell’ora la centrale operativa italiana potrebbe ancora salvare i bimbi e gli altri passeggeri. Ma rinuncia all’intervento diretto e passa la richiesta di soccorso ai colleghi di Malta. Nonostante la distanza tra la nave dei bambini e Malta sia il doppio della distanza da Lampedusa. Una scelta che in un resoconto scritto, inviato a “l’Espresso”, l’ammiraglio Angrisano spiega così: «La sequenza degli eventi descritta risponde a quei criteri di condotta internazionali dettati, nello specifico, dalla Convenzione di Amburgo che impongono a ciascuno Stato la responsabilità del coordinamento delle operazioni di ricerca e soccorso in aree definite e dichiarate». Alle mamme e ai papà sopravvissuti che hanno perso il resto della famiglia stanno quindi dicendo che i loro piccoli, i loro cari sono morti nel rispetto della Convenzione di Amburgo, dell’accordo che dal 1979 affida al ministero dei Trasporti la responsabilità del soccorso in mare.
Il comandante generale della Guardia costiera italiana conferma la testimonianza di Mohanad Jammo, 40 anni, pubblicata da “l’Espresso” a inizio novembre. Le loro versioni non coincidono soltanto per un punto. Il dottor Jammo, primario dell’Unità di terapia intensiva in un ospedale di Aleppo in Siria, nel naufragio ha perso due figli di 6 anni e 9 mesi. È lui che dal peschereccio parla con il numero di Roma della centrale di coordinamento del soccorso. Telefona su richiesta dello scafista che gli presta il satellitare Thuraya. Jammo chiama l’Italia proprio perché sullo schermo di tre strumenti Gps che hanno a bordo vedono che Lampedusa è a poco più di cento chilometri. E Malta è a oltre duecento. Logica e buon senso avrebbero spinto chiunque a quella scelta. Cento chilometri sono due ore di navigazione per le motovedette della Guardia costiera e poco più di un’ora e mezzo per i pattugliatori veloci della Guardia di finanza che l’11 ottobre sono presenti in forze a Lampedusa, dopo il naufragio dei profughi eritrei otto giorni prima. «Ho chiamato tre volte, sempre lo stesso numero italiano», dice Mohanad Jammo: «Verso le 11 del mattino, verso le 12.30 e poco prima dell’una del pomeriggio». Le parole di Jammo sono confermate da altri due medici sopravvissuti: Ayman Mustafa, 38 anni, chirurgo, il papà di Joud, che ora è ufficialmente dispersa in mare con la mamma Fatena, 27, e da Mazen Dahhan, 36, neurochirurgo, che ha perso la moglie Reem, 30 anni, e tutti e tre i loro bambini.
Il drammatico racconto di Mohanad Jammo del medico siriano sopravvissuto al naufragio dell’11 ottobre e che nella tragedia ha perso due figli. “Abbiamo chiesto aiuto e per un’ora e mezza non è successo nulla. Solamente dopo ci hanno detto di chiamare la marina maltese. Così abbiamo perso due ore fondamentali”
L’ammiraglio Angrisano smentisce soltanto la telefonata delle 11. Il resto è confermato. «Alle 12.26», racconta, «giunge da apparato telefonico satellitare alla centrale operativa una chiamata fortemente disturbata e a tratti incomprensibile. Dopo cinque minuti di tentativi di comunicare, la linea cade. L’esperienza maturata induce comunque a contattare, come già fatto in centinaia e centinaia di casi analoghi, il gestore della rete Thuraya che ha sede negli Emirati arabi».
Otto minuti dopo la conclusione della prima conversazione, il dottor Jammo richiama. Sono le 12.39 e la telefonata prosegue fino alle 12.56. La voce è più comprensibile: «Tanto da permettere di acquisire alcuni elementi, numero e nazionalità delle persone a bordo, luogo di partenza, la presenza di due bambini bisognosi di cure, fornendo per ultimo la posizione dell’unità che, con motore fermo, imbarca acqua», aggiunge Angrisano.
Dunque la centrale operativa di Roma sa che a bordo ci sono profughi, ci sono bambini, ci sono feriti e che il peschereccio sta affondando. Anche ignorando la chiamata delle 11, che Mohanad Jammo comunque conferma, alle 13 c’è ancora tutto il tempo per far partire le motovedette e i pattugliatori da Lampedusa. E, calcolando la loro velocità, per farli arrivare a destinazione tra le 14.30 e le 15. Cioè almeno due ore prima della strage. Poi ci sono la Libra e più lontana, a 96 chilometri, la Espero. Le due navi militari sono da quelle parti per proteggere i pescherecci italiani da incursioni libiche. Le motovedette maltesi insomma dovrebbero percorrere il doppio della distanza rispetto ai due pattugliatori della Marina. E rispetto ai mezzi ancora a Lampedusa, che quel pomeriggio sono in gran parte in porto. Invece alle 13 la centrale operativa di Roma passa la richiesta di soccorso a Malta.
Quando dalla Guardia costiera italiana gli annunciano quello che avrebbero fatto, Mohanad Jammo li supplica: «Per favore, stiamo per morire». E il militare al telefono: «Per favore, potete chiamare le forze maltesi, adesso vi do il numero: 00356…».
«Se prendete la registrazione», ricorda il dottor Jammo, «vedrete che non mi ha lasciato il tempo. Ha chiuso la telefonata prima ancora che avessi finito di scrivere il numero». Questo invito a chiamare direttamente Malta, spiega l’ammiraglio Angrisano, «risponde a una chiara, collaudata e produttiva metodica che attraverso il contatto diretto di chi chiede soccorso e chi è tenuto a prestarlo, rende più efficace, più produttiva l’azione di salvataggio». A bordo sono terrorizzati. Il ponte inferiore è ormai allagato. I passeggeri cominciano a risalire sul ponte principale e su quello superiore. Mazen Dahhan, che è là sotto, prende i suoi bambini, Mohamed, 9, Tarek, 4, e il piccolo Bisher, 1, e li passa di sopra ad Ayman Mustafa che li fa sedere all’asciutto. La piccola Joud sta ancora dormendo, abbracciata alla mamma.
Anche Mohamad, 6 anni, il figlio più grande di Jammo, dorme al sole. Per un attimo riapre gli occhi e osserva il suo babbo in piedi sul tetto della cabina di comando, che con il telefono satellitare e una voce sempre più disperata continua a chiamare Malta. Incrociano i loro occhi per un attimo. Il papà gli mostra il pollice alzato. Il piccolo Mohamad gli sorride, si riaddormenta. Resterà il loro ultimo sguardo.
«L’unità si trova nell’area di responsabilità di Malta», insiste l’ammiraglio Felicio Angrisano nel resoconto scritto: «Quella centrale di coordinamento viene pertanto interessata alle 13 dalla centrale operativa della Guardia costiera che comunica di aver anche individuato nella zona due navi mercantili, più prossime alla unità dei migranti, rispettivamente a 25 e 70 miglia». Alle 13.05 l’autorità maltese, secondo il comandante della Guardia costiera, assume la direzione delle operazioni di ricerca e soccorso. Rivela ancora l’ammiraglio Angrisano: «Frattanto in quell’area dirige, come da disposizioni del comando in capo della squadra navale della Marina militare, anche la nave Libra con elicottero a bordo». E qui però i conti non tornano più.
La Marina militare riferisce che alle 13.34 la nave Libra è soltanto a 27 miglia dal punto della richiesta di soccorso. Sono 50 chilometri. Alla velocità massima della nave, 20 nodi, 37 chilometri orari, con quel mare calmo la Libra potrebbe raggiungere i profughi in un’ora e mezzo. Cioè già alle 15. Arriverà invece alle 18: perché soltanto dopo l’affondamento della nave dei bambini, il coordinamento di Malta chiede alla centrale operativa di Roma il concorso degli italiani. Alle 17.14, quando riceve finalmente l’ordine di intervento, la Libra è ancora a dieci miglia, 18 chilometri. Insomma, da ore naviga in attesa che qualcuno decida cosa fare. Quattro ore e mezzo per percorrere 50 chilometri fanno una velocità media di 11 chilometri orari, meno di 6 nodi: non certo un’andatura di pronto intervento.
Le 13.34 di quel pomeriggio nascondono un altro retroscena incredibile. È il momento in cui l’avviso ai naviganti del centro operativo di Roma viene diramato a tutto il mondo: la nota “hydrolant 2545” chiede alle navi in transito di assistere se possibile il peschereccio, come ha scoperto Charles Heller, ricercatore alla Goldsmiths University of London e uno dei fondatori della rete watchthemed.net . Alle navi in transito. Non alla nave Libra. Perché? «La Centrale di coordinamento di Roma ha offerto immediatamente il richiesto contributo indicando la presenza, nella più vasta area, di due navi mercantili e di una nave della Marina militare», sostiene il comando della Guardia costiera: «L’autorità che assume in base alla convenzione di Amburgo la direzione e il coordinamento delle attività di soccorso, ne detta i tempi, le modalità e anche le eventuali richieste di cooperazione». In altre parole, è colpa dei maltesi se si sono dimenticati di impiegare la Libra. Le Forze armate maltesi non hanno ancora risposto alla richiesta di spiegazioni.
Alle 16.22 l’autorità di Malta informa Roma che un proprio aereo ha individuato il peschereccio alla deriva. Alle 17.07 sempre dalla Valletta avvertono che si è capovolto e chiedono aiuto all’Italia.
Soltanto alle 17.51 arriva sul posto la prima nave di soccorso, il pattugliatore maltese P61 . Verso la 18 si unisce la Libra. Mentre da Lampedusa vengono fatte partire le motovedette CP302 e CP301 e due pattugliatori veloci della Guardia di finanza. Esattamente quello che il buon senso del dottor Jammo supplicava da almeno sei ore.