Le madri tunisine e il doloroso viaggio verso la verità
Dal naufragio di Lampedusa del 7 ottobre scorso sono passati più di due mesi di ricerche, indagini e dolore per i familiari delle vittime. Il 13 dicembre, quattro donne tunisine sono arrivate finalmente alla straziante verità sulle sorti dei loro figli, presso la Procura della Repubblica di Agrigento.
Gamra, Hamida, Zakia e Soulaf, in una lunga giornata di indagini, hanno avuto la certezza della morte dei loro cari, vittime delle politiche di frontiera che governano il nostro mare e che sanciscono la disomogenea distribuzione di diritti tra coloro che nascono a sud o a nord del Mar Mediterraneo.
Nonostante la dolorosa iniquità vissuta sulla pelle delle vittime e delle famiglie, la convocazione dei magistrati italiani e il riconoscimento dei corpi di questi migranti ha costituito finalmente un importante e inedito atto di giustizia.
La difficile ricerca degli scomparsi del naufragio
La giornata del 13 dicembre è stata in realtà solo l’ultimo passaggio di una ricerca lunga e accidentata, avviata nel mese di ottobre: tutto è cominciato nelle ore successive al naufragio del 7 ottobre davanti le coste di Lampedusa, dove hanno perso la vita 25 persone di varie nazionalità.
Gli attivisti italiani di Campagna LasciateCIEntrare, Borderline Sicilia, Rete Antirazzista catanese e Carovane migranti si sono attivati dopo le segnalazioni di scomparsa di quattro giovani tunisini raccolte e denunciate da Imed Soltani dell’associazione Terre pour Tous, che ha diffuso queste richieste – corredate di dati anagrafici e fotografie – dalla Tunisia all’Italia. Da questo momento è partito il lavoro congiunto delle realtà associative italiane, un lavoro partecipato e dal basso, senza il quale non si sarebbe raggiunto l’importante risultato del 13 dicembre.
Le prime segnalazioni di scomparsa sono state inoltrate alla Croce rossa internazionale e italiana tramite la piattaforma RFL ma senza nessun esito. Sono stati fatti inoltre numerosi appelli all’Ambasciata italiana e al Ministero degli Affari esteri a Tunisi ma senza risposte.
Con l’aiuto prezioso di Imed Soltani, le mamme si sono sottoposte a Sfax alla prova del DNA, test importantissimo per l’identificazione dei corpi. L’invio della prova biologica da Sfax a Tunisi e da Tunisi verso l’Italia ha richiesto parecchio tempo, a causa di blocchi burocratici che hanno ritardato l’avvio delle procedure di identificazione dei corpi, lasciando le mamme senza risposte e senza giustizia. Sono iniziate così proteste e mobilitazioni a Tunisi, supportate in Italia da comunicati stampa e da contributi solidali di giornalisti, ricercatori e vari sostenitori.
È stata necessaria un’azione legale tramite l’intervento dell’avvocato Leonardo Marino che ha ottenuto il mandato da parte delle mamme per intervenire sul delicato caso. Solo grazie al suo fondamentale lavoro, ha avuto avvio la procedura di confronto del DNA, nel match di confronto del materiale biologico dei familiari e delle vittime. Di qui, è arrivata la convocazione delle mamme in Italia da parte del Procuratore Dott. Vella, a capo delle indagini relative al naufragio.
Il doloroso riconoscimento e le storie dimenticate dei migranti
Così il 13 dicembre le mamme, tutte originarie di Sfax, hanno attraversato il mare e sono arrivate in Sicilia, – accompagnate ad Agrigento da rappresentanti del Consolato tunisino – dove sono state sentite come testimoni nelle indagini. Le familiari delle vittime hanno inoltre portato avanti il doloroso lavoro di riconoscimento dei loro figli, assistite da un’esperta equipe di specialisti, medici, psicologi e mediatori che hanno supportato e affiancato le indagini in quei momenti drammatici. Tra loro c’era Dario Terenzi di Medici Senza Frontiere, che già aveva assistito i superstiti del naufragio del 7 ottobre e che ha attenzionato con la stessa cura la condizione delle mamme tunisine.
Nonostante la qualificata assistenza, per le mamme è stata un’esperienza straziante: due di loro hanno appreso che i corpi dei loro figli non sono stati recuperati in fondo al mare e quindi non potranno più tornare a casa. Tra i cadaveri non recuperati c’era Lazhar, partito per l’Europa perché malato di cancro. Dopo che il visto gli era stato negato aveva deciso comunque di mettersi in viaggio perché voleva curarsi dal male, pensando alla sua bambina di appena tre anni. La sorella di Lazhar, Dorra, lo aveva riconosciuto in un video diffuso dai giornali, identificando il fratello tramite l’abbigliamento indossato quella tragica notte: “Riportatelo a casa.” – ci aveva detto – “Vogliamo riaverlo tra le nostre braccia”. Anche Fekher, il più giovane dei quattro, aveva deciso di prendere il mare, per il suo bene, ed è morto a 18 anni con la speranza di un futuro migliore, lasciando la mamma Hamida e la sorella Sondos senza nemmeno la consolazione di riavere il corpo.
Le altre due mamme, Zakia e Soulaf, hanno avuto esito positivo dal confronto del DNA e quindi è stata possibile l’identificazione completa, in un processo altrettanto doloroso ma con la consolazione di poter almeno riportare a casa i corpi dei loro figli e dare loro una giusta sepoltura.
Stanche e provate, le mamme hanno fatto sosta a Palermo dove sono state ricevute dal Sindaco Orlando e poi sono tornate a casa, se non con una completa giustizia, almeno con la verità dei fatti. Una verità amara, dolorosa, pungente. Per loro e per tutti noi. Perché quei morti sono anche i nostri, persone che continueremo a difendere, opponendoci al fatto che il Mediterraneo diventi una fossa comune . “Non mangio più pesce perché quel mare è un cimitero di corpi”, dice Imed. Chiamato a parlare della sua associazione e del suo importante lavoro davanti al Procuratore Vella e alla squadra che gestisce le indagini, Imed ha raccontato come queste ricerche degli scomparsi nel Mediterraneo proseguano dal 2011 e costituiscano ormai un dossier di nomi e di storie lungo e pesante. L’associazione Terre pour tous dal 2012 lotta per richiedere verità e giustizia sui migranti scomparsi – tunisini subsahariani, asiatici – che sfidano le politiche securitarie di blindaggio e confinamento. “L’unico modo è cambiare questo sistema che spinge i migranti a prendere il mare perché vie sicure alla circolazione non ce ne sono e i visti vengono sistematicamente negati”, dice.
Lo sforzo di Imed e delle famiglie che lo sostengono è costante affinché esercitare la propria libertà di movimento cessi di essere un privilegio per pochi. Ascoltato attentamente dal Procuratore e dai suoi collaboratori, Imed ha auspicato a nome di tutti i familiari e degli scomparsi che si possa costruire un ponte di collaborazione tra la sua associazione in Tunisia e le istituzioni in Italia, affinché questi legami, nell’attesa di giuste politiche di migrazione per tutti, rendano almeno possibile far ridurre il numero di persone non identificate. ” E’ la prima volta che arriviamo a questo risultato con le istituzioni italiane e speriamo che questa collaborazione possa proseguire” dice Imed, ringraziando il dott. Vella che ha dimostrato la massima disponibilità, attenzione e professionalità nella gestione di questo caso e ha dichiarato l’intenzione di continuare questa collaborazione nelle ricerche dei dispersi.
Le occasioni, purtroppo, non mancano poiché i naufragi continuano a ripetersi senza che nulla cambi: in questi ultimi giorni ad Agrigento abbiamo incontrato tre familiari eritrei, una donna e due uomini, che autonomamente sono arrivati in Sicilia per rivendicare i corpi dei loro cari scomparsi nel naufragio di Lampedusa del 23 novembre scorso. Sappiamo che almeno altri due familiari sono in arrivo e raggiungeranno Agrigento prossimamente. Ci siamo già attivati affinché anche loro possano avere il massimo sostegno nella ricerca di verità e giustizia.
Diritti annegati nella negazione dei soggetti migranti
La maggioranza dei corpi dei migranti morti in mare in questi anni, nel tentativo di arrivare in Europa, non è mai stata recuperata né identificata. Spesso, anche quando i corpi vengono estratti dal mare, non avviene alcuna identificazione e quindi le salme finiscono per essere sepolte in tombe anonime contraddistinte da numeri, in cimiteri di varie città a sud dell’Europa. In molti casi la notizia non arriva alle famiglie che vivono senza sapere la sorte dei propri cari.
Ciò significa che migliaia di corpi senza identità giacciono nel nostro mare e sulle nostre terre, uccisi dalle politiche migratorie europee, che negano le soggettività migranti in vita e in morte, negano le loro identità, le loro storie, le lotte personali e collettive.
È vero che le difficoltà tecniche per gli accertamenti autoptici e identificativi sono rilevanti, che i corpi spesso sono recuperati in uno stato di decomposizione già avanzato che complica l’identificazione, che spesso le salme delle vittime coinvolte nei naufragi finiscono sotto la giurisdizione di Procure o Paesi diversi, aggravando le possibilità di ricerca presso l’autorità competente. A maggior ragione è necessario attivare una piattaforma efficace che raccolga dati e informazioni sugli scomparsi, facilitando la ricerca dei familiari. Al momento, abbiamo appurato che non esiste un sistema di intervento risolutivo e che senza le sollecitazioni costanti degli attivisti e senza la proficua azione legale condotta dall’avvocato con il procuratore, anche questi migranti sarebbero rimasti senza nome e i loro familiari senza verità.
Non è più possibile restare inermi – da un punto di vista giuridico, culturale, umano – davanti alla scomparsa silenziosa di migliaia di persone: questa situazione incide su una pluralità di diritti fondamentali garantiti dalle Convenzioni internazionali, dai Trattati dell’Unione Europea, dalle Costituzioni dei Paesi europei, tra cui quella italiana. Perché ad essere lesa non è solo la dignità dei morti, ma anche i principi di uguaglianza e solidarietà, oltreché i diritti inviolabili della persona e della sua dignità.
Sappiamo che molti migranti continueranno a prendere la strada del mare, dalla Libia o dalla Tunisia, e tenteranno l’attraversamento sui barconi perché l’entrata sicura e legale continuerà ad esser loro negata. Con i decreti sicurezza in atto e il potenziamento delle politiche di Frontex, ci saranno altri corpi in balia delle onde e altri madri come Gamra, Hamida, Zakia e Soulaf in attesa di notizie, chiedendosi come sarebbe andata se i propri figli fossero nati in un’altra parte di mondo.
Perciò sollecitiamo la costituzione immediata di un sistema di ricerca e di ripristino dei legami familiari per le persone migranti, proprio come avviene tempestivamente per tutte le persone europee e occidentali coinvolte in catastrofi di analoga importanza.
Nel frattempo i migranti e le famiglie conteranno sul nostro appoggio incondizionato: nell’attesa che sia costruito un sistema di ricerca operativo ed efficace, come rete di realtà associative solidali non ci esimeremo dal reclamare costantemente l’approdo immediato di corpi, identità e diritti per i migranti.
Silvia Di Meo
Borderline Sicilia