Il confine Lampedusa. Prassi illegittime, indifferenza e resistenza
A Lampedusa, limbo di confine in mezzo al Mediterraneo, gli sbarchi dei migranti seguono ininterrotti. Passano sotto il silenzio mediatico le violazioni dei diritti costantemente messe in atto nell’hotspot – dove negli ultimi giorni sono state trattenute fino a 300 persone – le informali procedure di ricollocamento europee e la violenza costituita dall’indifferenza diffusa. Ciononostante, l’opposizione alla criminalizzazione dei migranti da parte delle associazioni costituisce la base di resistenze giocate quotidianamente sul confine e lontano da esso.
Confine di indifferenza e resistenza
Il racconto che di Lampedusa arriva a duecento chilometri più a nord, in Sicilia, poi in Italia e infine in Europa, è analizzato spesso attraverso filtri sfocati in cui si inquadrano soltanto alcuni elementi, appannaggio dell’una o dell’altra parte, nell’eterna contrapposizione tra due fazioni, tra chi vuole accogliere e chi no. Ma è davvero questo il racconto reale? Lampedusa, in occasione delle ultime elezioni europee, è finita su tutti i giornali con un unico titolo: è boom della Lega, il partito di Salvini stravince nell’isola dell’accoglienza. Ma la verità – se di verità si può parlare – è ben più complessa: Un sentimento di ostilità, c’è sempre stato, è sempre esistito, ma è rimasto nascosto tra le righe delle migliaia di articoli o servizi di questi anni pronti alla cronaca degli sbarchi e alla fortissima mediatizzazione che infastidisce la popolazione lampedusana: è sempre un’unica voce quella che irrompe fuori dai suoi confini.
Infatti nel quadro dipinto a chi è lontano da quella piccola isola in mezzo al Mediterraneo, manca un elemento fondamentale: l’indifferenza. Relegato a piccolo numero, senza che dietro ne venisse elaborata una visione critica, è l’affluenza alle elezioni: i lampedusani che andarono a votare alle europee sono stati appena il 26%. Quel boom di voti leghisti è tutto compresso qui. È un’indifferenza, questa sì largamente diffusa, che funziona come un muro di gomma tra una parte e l’altra e sulla quale tutto sembra rimbalzare per poi tornare indietro, esattamente al punto di partenza, ognuno dalla sua parte. Un’indifferenza trasversale che non è nata né si è acuita negli ultimi tempi, ma esisteva anche prima, anche quando c’era Giusi Nicolini, la sindaca dell’accoglienza. Chi sta a Lampedusa, da abitante o da “straniero” perché ha scelto di viverci, ti racconta che poco o nulla è cambiato in questo senso: Lampedusa non si è risvegliata leghista, né è sempre stata solidale. Si è ritrovata sotto i riflettori e come un ponte, qui si, tra l’Africa e l’Europa, è stata chiamata ad accogliere tutta l’umanità in arrivo.
Nonostante la cortina di indifferenza che avvolge una parte di Lampedusa, esiste una rete di resistenza e di supporto ai migranti: Il Forum Lampedusa Solidale raggruppa in sé diverse anime, da Mediterranean Hope alla comunità parrocchiale di Don Carmelo La Piana, al collettivo culturale Askavusa. Anche loro si ritrovano incastrati tra le righe del racconto, ci stanno proprio in mezzo, vivendosi, – attraverso le loro attività – tutte le contraddizioni interne, le tensioni fintamente improvvise perché percepite e presenti nei bassifondi degli animi, di quanto Lampedusa sia costantemente una miccia pronta ad implodere in qualsiasi momento.
L’approvvigionamento di cibo, acqua e coperte agli sbarchi e il monitoraggio sulla situazione dell’hotspot, la realizzazione di spettacoli ed iniziative culturali per la popolazione e per i ragazzi, anche solo la presenza fisica ed etica durante le proteste o in alcuni momenti delicati e di ostilità, i presidi sul sagrato della chiesa per rivendicare l’apertura dei porti, pratiche di accoglienza, relazioni con gli equipaggi delle navi delle ONG: come piccolo presidio di resistenza, cercano di creare attraverso l’azione e la riflessione punti d’incontro, ponti, mediazioni e possibilità di convivenza tra i vari soggetti che abitano l’isola.
La situazione critica dell’hotspot
L’hotspot di Lampedusa, dove i migranti appena giunti vengono trasferiti subito dopo lo sbarco, è stato negli ultimi giorni uno spazio sovraffollato e ingestibile: i migranti trattenuti nel centro sito a Contrada Imbriacola sono arrivati ad essere nei giorni passati circa 300, quasi il triplo di quelli che la struttura potrebbe ospitare.
Nelle ultime settimane, infatti, sono susseguiti ininterrottamente sbarchi e arrivi di migranti: quello della nave Ocean Viking a cui abbiamo presenziato con un piccolo comitato di accoglienza, ai barchini giunti spontaneamente sulle coste lampedusane. In venti giorni gli arrivi hanno contato centinaia di persone, tutte passate per un periodo di permanenza nell’hotspot, dove sono state oggetto di limitazione arbitraria della libertà per fini identificativi.
La limitazione della libertà personale che impedisce ai migranti trattenuti di uscire formalmente dal centro definisce la permanenza nella struttura come una vera detenzione: il cancello del centro è chiuso al passaggio dei migranti (“No, da qui non si esce”, è la frase rivolta spesso ai migranti che chiedono di essere lasciati liberi di muoversi) e l’unico modo per uscirne è attraverso un’apertura della rete ad opera dei migranti.Una situazione nota a tutti, accettata e naturalizzata: grazie a questi varchi è possibile lo spostamento verso il centro abitato e la possibilità per i migranti di prendere contatto con le associazioni attive sul territorio.
Il timore delle pressioni e delle minacce costanti, l’evidente militarizzazione del centro e la presenza costante delle forze della polizia spesso purtroppo smorza la volontà dei migranti di richiedere con forza i loro diritti.
L’accesso al diritto di richiedere la protezione internazionale è limitato e circoscritto: nello specifico, si opera una preselezione volta a differenziare i “migranti economici” dai “richiedenti asilo” attraverso un’ arbitraria valutazione spesso fondata esclusivamente sul paese di origine del migrante, senza considerare la personale storia di vita che indicherebbe gli eventuali presupposti per una domanda di asilo. Questo riguarda soprattutto i migranti provenienti dal Nord Africa e in particolare i numerosissimi che giungono dalla Tunisia, quasi sempre esclusi dalle procedure di richiesta di protezione internazionale e deportati nei CPR per l’espulsione. Così i cittadini che provengono da paesi considerati “sicuri” – tra i quali, come abbiamo dimostrato, la Tunisia non dovrebbe rientrare http://localhost:81/newbordtunisia-porto-sicuro-storie-di-violenze-e-deportazioni-dalla-frontiera-tunisino-libica/ – sulla base di una gerarchia di categorie di migranti, subiscono l’attribuzione di uno status giuridico in maniera totalmente informale, senza una valutazione specifica del caso e spesso nonostante la manifestazione della volontà di richiesta di protezione. Queste irregolarità sono possibili grazie alla mancanza di un’informativa legale chiara inerente anche al proprio status legale come persona in transito. “Pourquoi ils nous informent pas pour qu’on sache?”, ci hanno chiesto varie volte i migranti all’esterno degli hotspot. Anche le condizioni materiali dell’accoglienza lasciano a desiderare: la situazione di sovraffollamento con un numero di persone accolte di gran lunga superiore alla capienza massima, genera condizioni disagevoli di permanenza.
L’impossibilità per le associazioni sul territorio di accedere ai centri hotspot rende difficoltosa l’attività di monitoraggio, di assistenza legale e sociale e l’intervento sulle procedure di ricollocamento. Le nuove prassi informali sembrano configurare procedure invisibili e le possibilità di contatto tra i migranti e le organizzazione esterne risultano ridotte, facendo si che le dinamiche interne restino in una zona d’ombra di difficile accesso. Come ha sottolineato il corso formativo ASGI svoltosi dal 13 al 15 settembre dal titolo “Lampedusa. Operare in frontiera”, il centro in questione ha dimostrato nel tempo numerose spinosità, esasperate dall’applicazione del Decreto 113/2018 con il quale il governo ha consolidato le criticità, ha introdotte nuove problematiche e ha permesso che i centri in questione siano sempre più assimilabili a luoghi di detenzione. Non solo: le procedure di ricollocamento europee acuiscono la condizione di eccezionalità giuridica in cui i migranti riversano.
L’ambiguità delle procedure di ricollocamento e degli accordi di Malta
Mentre la società civile si congratula della discontinuità dimostrata dal nuovo governo, che – finalmente, senza clamori mediatici e bracci di ferro diplomatici – ha acconsentito il 15 settembre allo sbarco della Ocean Viking, l’attenzione sul post-sbarco, su queste persone, prima bloccate in mare e poi rinchiuse in un hotspot, rimane una nebulosa dai contorni imprecisati, dimenticata dagli schizofrenici media italiani.
L’idea diffusa è che, dati gli accordi tra gli stati membri dell’Unione europea, queste persone vengano immediatamente ricollocate all’interno di altri paesi europei. Eppure, come abbiamo già avuto modo di mostrare, i ricollocamenti non solo non sono tempestivi, ma vengono preceduti da una serie di interviste con le delegazioni dei paesi europei che non fanno altro che portare confusione e dubbi sulle modalità di ricollocamento. La maggior parte dei soggetti migranti da noi incontrati è convinta che passato il « test » del colloquio con le delegazioni si ottenga de iure una protezione internazionale, quando in realtà ben sappiamo che i “selezionati” dovranno comunque iniziare il lungo iter della richiesta d’asilo, con la possibilità di essere diniegati.
Per questo, leggiamo con un sorriso amaro l’editoriale del Manifesto del 15 settembre, dopo lo sbarco della Ocean Viking, in cui con un sospiro di sollievo si dice che finalmente queste persone “bambini, donne, uomini, possono finalmente bere, mangiare, curarsi, sperare, chiedere asilo”, perché l’accoglimento di tutte queste richieste non è così scontato. Dati i racconti che abbiamo ascoltato, sappiamo bene che non viene fornita assistenza medica, con il pretesto che si verrà curati dopo il ricollocamento; che non viene offerto nessun supporto psicologico per le persone vittime di tortura in Libia; che si vive ammatassati uomini, donne e bambini in stanzoni dalle condizioni igieniche precarie, con i telefoni sequestrati e il divieto di comunicare con persone esterne alla struttura.
Affermare che ci sia una discontinuità con il governo precedente ci mostra ciechi davanti queste situazioni, ponendo l’accento sul -sempre troppo spettacolarizzato- sbarco e senza mai preoccuparsi di ciò che avviene dopo. Il problema è la normalizzazione di questi accordi informali, che non hanno criteri chiari, pertanto non sono né regolamentati né normati e dunque creano un vuoto nella giurisprudenza, grazie al quale tutto è concesso. Ciò passa come fatto irrilevante, dal momento che il destino di queste persone non sarà in Italia e dunque non risulta necessario prendersene cura, nonostante rimangano negli hotspot per mesi.
Per questo motivo, le decisioni prese dal vertice avvenuto a La Valletta non possono risultare soddisfacenti. In primo luogo perché si continua a lodare l’operato della Guardia costiera libica, incuranti della guerra civile e degli omicidi di cui la Guardia costiera libica continua a macchiarsi . In secondo luogo, perché il ricollocamento automatico non farebbe altro che normalizzare queste procedure, senza però regolamentarle, rimanendo di fatto informali e dunque senza possibilità di supervisione. In più, siamo scettici nei confronti dell’alternanza dei porti di destinazioni, visto che i flussi verso Grecia e Spagna sono superiori a quelli che attualmente si dirigono verso l’Italia. E perciò l’accordo sembra un semplice specchietto per le allodole, che di fatto trasformerà la Sicilia in un centro di detenzione a cielo aperto, in nome di ricollocamenti che durano mesi — parte delle persone salvata a giugno dalla Sea-Watch si trovano ancora a Messina in attesa di essere trasferite in Germania e Finlandia.
Per questo chiediamo che gli accordi regolamentino e normino i ricollocamenti automatici, con prassi chiare e specifiche, con controlli su come vengono selezionate le persone e con quali modalità le delegazioni intervistino i soggetti migranti. Soprattutto, c’è bisogno di mettere a disposizione personale medico e psicologico, di smetterla di confinare questa gente come se fossero criminali, di ridare dignità e valore ai diritti umani.
Mettendo insieme i pezzi delle testimonianze a Lampedusa, dalle parole dei migranti trattenuti, dai racconti degli operatori di Mediterranean Hope che seguono con impegno gli sbarchi e i post sbarchi, ai resoconti degli attivisti del forum Lampedusa solidale, il quadro che ne emerge parla di una situazione molto più complessa e articolata di quella stereotipata riprodotta dai media. Su quest’isola, oltre ai corpi senza vita dei migranti seppelliti nel “Cimitero degli sconosciuti” e al “Cimitero delle barche” abbandonate, ci sono evidenti prassi illegittime all’interno dell’hotspot che devono essere rese note, al di là dell’indifferenza che permea il contesto.
Perché oltre questa Porta d’Europa, che funge da simbolo mediatico svuotato ormai di significato, l’umanità in transito continua a guardare con speranzosa determinazione, anche quando i riflettori si spengono e iniziano i rimpatri e le procedure di ricollocamento. L’unico modo per garantire che i diritti di tutti siano rispettati è quello di favorire trasferimenti immediati dalla zona di frontiera verso luoghi idonei all’accoglienza e alla permanenza, dove sia possibile soddisfare i bisogni primari e predisporre le condizioni atte ad avanzare la domanda di protezione.
Insieme al monitoraggio congiunto con gli attivisti di Lampedusa, continueremo a far sì che l’attenzione torni sempre sulle ingiustizie vissute dai migranti, prima e dopo lo sbarco sull’isola-confine, sulle violazioni e le violenze perpetrate nei loro confronti, sull’esercizio di un potere incontrollato che, in mare o sulla terraferma, continua impunemente ad ignorare i diritti dei migranti.
Silvia Di Meo
Valeria Grimaldi
Peppe Platania
Borderline Sicilia Onlus