Lampedusa e l’emergenza infinita
Pochi giorni dopo l’arrivo di più di 2.000 persone a Lampedusa, sono andato sull’isola per monitorare la situazione. Quello che è emerso nei giorni che ho trascorso lì, è una realtà ben diversa da come la raccontano le testate giornalistiche nostrane.
Cosa c’è dietro l’emergenza sbarchi a Lampedusa
Nei quattro giorni a Lampedusa, parlando con diverse realtà e persone – in particolare Mediterranean Hope, il Forum Lampedusa Solidale, medici e infermieri del presidio sanitario, ma anche pescatori e commercianti locali, – ho scoperto un’isola differente da come me l’aspettavo, da come l’ho sempre vista, raccontata e narrata.
Ci sono tre livelli su cui la narrazione della cosiddetta “emergenza sbarchi a Lampedusa” opera nell’immaginario collettivo e impatta sulla vita delle persone, straniere e locali. L’emergenza distoglie l’attenzione, prepara gli annunci, giustifica le azioni.
Forse è per questo che – pur riconoscendo che ci sono stati dei giorni di situazione fuori controllo, con persone a dormire sul Molo Favaloro – le persone solidali a Lampedusa continuano a ripetere: «Qui non c’è un’emergenza immigrazione». E che i problemi sono molto più grandi e strutturali.
L’emergenza distoglie l’attenzione dalle politiche di morte
In primis, l’emergenza distoglie l’attenzione dalle morti nel Mediterraneo. Di nuovo, il 13 maggio, 17 persone partite dalla Libia sono affogate al largo delle coste tunisine, e in questi giorni Alarm Phone ha segnalato diverse situazioni di barche alla deriva, con il motore in panne, con la vita delle persone in pericolo. È evidente che la vita di queste persone non vale come le altre, e che si punta a cancellare storie e vissuti personali, ed è tanto più vero di fronte a quella che si va delineando come la nuova strategia del governo italiano e dell’Unione Europea per proteggere i confini ed esternalizzare il controllo della frontiera.
In questa settimane, con le navi umanitarie lontane dal Canale di Sicilia – solo da qualche giorno è in mare la Sea-Eye 4 che ha già imbarcato più di trecento persone ed è attraccata a Pozzallo – le motovedette libiche, con il sostegno dei voli di pattugliamento operati da Frontex, hanno intercettato barche con centinaia di persone a bordo riportandole in Libia. Solo nella notte tra il 16 e il 17 maggio, 683 persone sono state intercettate dalla cosiddetta Guardia Costiera libica.
Se la situazione continuerà come si è delineata in queste due settimane – in cui sono sì arrivate 2.000 persone in Italia, ma altrettante sono state fermate – si determinerà lo scenario costruito politicamente negli ultimi anni, che può essere definito di “respingimento anticipato” o, più comunemente, di esternalizzazione del controllo della frontiera, con un Canale di Sicilia in cui interessi geopolitici si mischiano a strategie militari.
Insomma, quando Giorgia Meloni, così come i politici di destra lampedusani, gridano all’emergenza sbarchi e alla necessità di un blocco navale, forse non si rendono conto che questo, nei fatti, sta già venendo implementato dalla gestione autoritaria dei confini messa in atto dall’attuale governo.
Un altro elemento riguarda il processo di militarizzazione che non interessa solo quanto accade in mare. Chi, come nel mio caso, prende un aereo dalla Sicilia per la prima volta e vede che sul suo aereo salgono una dozzina di poliziotti, penserà che siano rinforzi per gestire la situazione emergenziale raccontata dalla stampa.
E, invece, come mi hanno raccontato persone di Lampedusa, e come ho potuto osservare stando lì, la militarizzazione dell’isola è un fatto ormai strutturale e in cui diventa ordinario viaggiare e vivere con persone armate, incontrarle per strada, vedere camionette, guardare l’orizzonte e imbattersi sempre in un’arma da fuoco.
Una prospettiva non troppo rassicurante, ma di cui nessuno parla, anche perché la presenza di militari garantisce un ritorno economico ad albergatori e ristoratori dell’isola, che non contestano questa asfissiante presenza.
Giornalismo da scoop e preparazione degli annunci
L’isola era piena di giornalisti, accorsi a riprendere e raccontare gli sbarchi e, nei fatti, generando, e certamente alimentando, la narrazione che poneva l’accento sull’emergenza sbarchi a Lampedusa – con alcune dovute eccezioni.
Mi ha molto colpito l’interazione tra commercianti, pescatori e giornalisti. Durante i quattro giorni a Lampedusa, ho visto decine di pescatori che riverniciavano il ponte delle barche, decine di commercianti che imbiancavano le facciate, preparavano i vasi e pulivano le vetrine in attesa dell’inizio della stagione estiva. In questo contesto di lenta ripresa dell’attività turistica, con i giornalisti si è creato un ambiguo rapporto di incomprensione, ironia e contestazione, gli unici veri “stranieri” su quest’isola al centro del Mediterraneo.
Come quando un giornalista Mediaset, in cerca dello scoop, ha chiesto ad un pescatore “Arrivano tutti i giorni?”, senza esplicitare il soggetto; e il pescatore, che si occupa di pesci e non di persone, ha risposto “Sì. i pesci arrivano tutti i giorni”, lasciando il giornalista a mani vuote. Ironia, come quella con cui tutti gli automobilisti ridevano dei giornalisti accalcati davanti al molo Favaloro, in attesa del tanto agognato sbarco. Contestazione, infine, come quando lungo il porto, un albergatore se l’è presa con i giornalisti che facevano un servizio con le barche dei migranti sullo sfondo: “Con tutte le barche che ci sono proprio a quelle tunisine dovete riprendere. Grazie da tutti gli albergatori”.
E il giornalismo da scoop che punta le telecamere solo sul fenomeno di passaggio è utile per preparare annunci da parte del governo, che una serie di indizi fanno intravedere chiaramente. La ministra Lamorgese ha cavalcato l’emergenza sbarchi dicendo che ci si aspetta 70.000 persone quest’estate, mentre nelle settimane appena precedenti era volata in Tunisia per parlare del rinnovo dell’intesa con il governo sui respingimenti dei tunisini.
In Tunisia c’era andato poco prima Draghi, che è anche andato recentemente in Libia per «ricostruire l’amicizia tra i due paesi».
Nei fatti, a breve si annunceranno nuovi accordi con entrambi i paesi per portare avanti il processo di esternalizzazione della frontiera sud dell’Europa. I rapporti tra Italia e Libia, in particolare, sono molto più stretti e dinamici di quanto si vorrebbe far credere. L’arrivo di duemila persone in un giorno non è stato soltanto conseguenza del mare calmo, ma di dinamiche di potere tra i governanti dei due stati.
L’emergenza giustifica una certa tecnica di governo delle migrazioni
Anche dopo essere arrivati in Italia si rimane “intrappolati” nel Mediterraneo. Ad Aprile, in una serie di manifestazioni antirazziste organizzate in tutta Italia, si è cominciato a parlare di “apparato digestivo”, in relazione al governo della migrazione in Italia: dal mare all’hotspot, alla nave quarantena, fino (spesso) al Cpr, una vera e propria filiera in cui esperimenti politici e privazione dei diritti si incontrano sui corpi delle persone migranti, intrappolate. E, nello spettacolo di Lampedusa, l’emergenza viene utilizzata come tecnica di governo delle persone migranti. Il sistema di accoglienza, da sempre in emergenza, giustifica qualsiasi cosa, andando spesso oltre la legge e imponendosi come stato di fatto. In questo contesto, spariscono i volti e le storie delle persone.
Così, si sa poco di chi è arrivato nelle ultime settimane: 2.000 persone, di cui 600 minori stranieri non accompagnati. Vengono principalmente dalla Costa d’Avorio, dall’Eritrea e dalla Somalia, dalla Tunisia, e in numero molto minore da Algeria e Marocco; c’è anche un ragazzo palestinese. Ci sono poi tante persone bengalesi, soprattutto tantissimi minori, che da qualche mese hanno ripreso la via del Mediterraneo in alternativa alla rotta balcanica dove questo inverno c’è stata violenza e morte. Ci sono donne e bambini, molte con storie traumatiche.
Dopo essere sbarcati, sono stati trasferiti all’hotspot, dove i tempi di permanenza sono molto brevi per la maggior parte delle persone. I più sono stati trasferiti sulle navi quarantena Snav Adriatico e Allegra, che si trovano ora a Porto Empedocle. I minori sono stati invece trasferiti in Sicilia su due traghetti di linea. Ho assistito al secondo trasferimento, sabato mattina presto. Centoventi minori hanno atteso seduti sul molo commerciale di essere fatti salire sulla nave, dopo essere stati trasportati al porto ammassati su dei piccoli van, senza troppa attenzione alle procedure sanitarie che dovrebbero giustificare l’attuale livello di segregazione delle persone che arrivano in Italia.
Al porto, due operatori di Save the Children distribuivano delle piccole guide spiegando che sarebbero stati tutti trasportati in Puglia, e dando delle veloci linee guida sui diritti di questi ragazzi. Ma, per il secondo gruppo, non è stato concesso tempo a sufficienza per spiegare a tutti, bisognava imbarcarsi, e alla svelta, così in molti si sono trovati con la guida in mano senza sapere a cosa potesse servire.
Con l’aiuto delle navi quarantena il centro è stato quasi interamente svuotato in pochi giorni. Al mio arrivo rimanevano solo donne e minori. Intanto, nella giornata di venerdì con tre nuovi sbarchi autonomi – uno dalla Tunisia e due dalla Libia – sono arrivate a Lampedusa altre centocinquanta persone. Le navi quarantena si stanno dunque rivelando uno strumento fondamentale nella gestione delle persone migranti, creando degli hotspot galleggianti, e non sorprende dunque che il governo abbia appena aperto un bando per altre 4 navi.
Nonostante la strategica presenza di Frontex agli sbarchi, non sono stati identificati presunti scafisti, ma quattro uomini tunisini sono stati denunciati per reingresso illegale sul territorio. Dai colloqui avuti con il personale del presidio sanitario non risulta qualcuno sia stato portato al poliambulatorio, mentre delle vulnerabilità psicologiche, nonché dei traumi fisici lievi, si occupa il medico dell’ente gestore dell’hotspot, Nova Facility.
Si arriva dunque ad un punto cruciale: il centro, in cui operano Nova Facility, Polizia, Frontex, UNHCR, Save the Children ad intermittenza, e tanti agenti delle forze dell’ordine. I lavori per l’ampliamento del centro sono ancora in corso e dovrebbero portare la struttura ad avere 700 posti, contro i 240 attuali. Da quasi un anno, ormai, il centro è presidiato da una dozzina di militari che pattugliano la zona oltre le recinzioni, ma che non riescono comunque ad impedire alle persone di uscire. Il “buco”, infatti, si apre e si chiude seguendo una semplicissima equazione: tanto più una persona viene tenuta all’interno dell’hotspot, quanto più è probabile che ad un certo punto scavalcherà le recinzioni per andare verso il paese e godere di qualche ora di libertà dalla opprimente vita del centro.
Nei prossimi mesi bisognerà vedere se l’approccio hotspot “diffuso” tra centri sulle isole – si deve anche cominciare a parlare di Pantelleria – e navi quarantena reggerà la pressione dei flussi che crisi economiche e la (ri)esplosione di conflitti in Medio Oriente, così come in Ciad ed Eritrea, possono generare. Altrimenti rivedremo scene di centri e banchine sovraffollate, mentre continueremo a non sapere nulla di chi passa settimane in mezzo al mare sulle navi quarantena.
La memoria e la mobilitazione
A Lampedusa però non c’è soltanto questo intreccio militare e repressivo. Ci sono anche persone che si stanno impegnando in progetti collettivi e politici in grado di offrire una prospettiva diversa.
Il primo è un lavoro di memoria viva, per restituire dignità, attraverso lapidi e tombe nel cimitero di Lampedusa, ai senza nome morti nel Mediterraneo, o per chi un nome ce l’ha, come Yusuf, morto in mare nel Novembre 2020. A seguito della morte di Yusuf, il Forum Lampedusa Solidale ha dato vita al progetto “La coperta di Yusuf”, che unisce pezzi di memoria che stanno diventano patrimonio comune di chi non vuole arrendersi a questo stato dei fatti.
Costruire memoria viva, come ha scritto Silvia Di Meo, non è un compito facile, significa confrontarsi con la morte, con la scomparsa, con l’assenza, e anche con il nostro privilegio di essere Europei, di stare al centro di un mondo in cui indirizziamo lo sviluppo e controlliamo la vita, in cui fermarsi sembra impossibile, in cui bisogna costruire solo sulla vita e non sappiamo – come questa pandemia sta bene illustrando – cosa voglia dire fermarsi di fronte alla morte. E allora, la memoria viva è fondamentale per unire le due sponde del Mediterraneo e combattere contro la gestione autoritaria, razzista e classista con cui vengono gestiti i confini.
Per fare questo, a Lampedusa, si sta anche cominciando a pensare ad una serie di parole comuni su cui costruire future mobilitazioni. I movimenti antirazzisti di Black Lives Matter hanno indicato una strada che è quella del defund the police (disinvestire risorse dalle forze di polizia).
Come in un parallelismo, e di fronte alla evidente politica di morte delle frontiere europee, bisognerebbe, dicono a Lampedusa, cominciare a parlare di defund the border, nonostante sia evidente che si parta da una condizione di svantaggio legata ai grossi investimenti in sicurezza e difesa dei confini fatta da tutti i paesi europei in questo periodo.
Emilio Caja
Borderline Sicilia