Messina 20 mila migranti dal 2013. Nessuno è rimasto.
meridionews.it – In due anni la città dello Stretto ha ospitato un numero ingente di stranieri. Solo di passaggio però. Il capoluogo è invece meta del pendolarismo di«prostitute nigeriane da Catania e mendicanti da Mineo», secondo l’associazione Penelope. Mentre Clelia Marano,ex esperta del sindaco, lancia l’allarme sulla promiscuità nei centri di prima accoglienza
Inadeguatezza legislativa, strutture scarse e ormai al collasso, nessuna rete di supporto, condizioni di vita promiscue che mettono i più deboli a rischio di violenze. Questo e molto altro è l’accoglienza in Sicilia, dove il disagio alimenta la criminalità e la prostituzione e l’accattonaggio sono d’esportazione.A Messina, per esempio, dal 2013 a oggi, sono arrivati circa 20mila migranti. Dagli eritrei, ai somali, dai palestinesi ai siriani. Nessuno è rimasto. «Il loro progetto migratorio non è quello di restare», conferma Clelia Marano, ex esperta del Comune e assistente sociale con esperienza nei Paesi africani.Proprio perché il capoluogo peloritano, dove la scorsa settimana si sono registrati tre sbarchi per complessive 650 persone, è un punto di mero transito, tranne che per i minorenni. Persino le prostitute e i mendicanti arrivano da fuori. «Le prostitute nigeriane arrivano da Catania grazie al pendolarismo», dice Cettina Restuccia, referente dell’associazione Penelope, impegnata nelle situazioni di tratta, traffico o sfruttamento. Proprio la stazione dei pullman funziona da snodo. Anche per chi chiede la questua ai semafori. «I ragazzi dediti all’accattonaggio provengono da Mineo. A Catania sono troppi e i posti sono tutti assegnati. Cercano nuovi mercati e a Messina c’è più possibilità di lavorare».Per evitare inconvenienti con la legge, «ora le ragazzine sono messe in strada con il permesso di soggiorno». «Le stesse donne che si prostituiscono sulla Catania-Gela – prosegue – sono ospiti a Mineo. Molte lo fanno all’interno del Cara (il più grande d’Europa, con una popolazione di 4-5mila persone, ndr). A causa del trattato di Dublino, è una polveriera, C’è gente, in attesa del permesso di soggiorno, anche da un anno e mezzo. E alla fine potrebbe pure essere espulsa. Noi gettiamo soldi senza valorizzarne la presenza. Da parte loro c’è l’esigenza di guadagnare. I loro parenti in patria hanno investito, fatto debiti, per farli andare via e da qui devono mandare il denaro a casa. Almeno per pagare il mutuo».Secondo le stime dell’associazione, aMessina, ogni giorno, arrivano 30, 35 persone, di cui una quindicina di prostitute di origine nigeriana o colombiana. I migranti che sbarcano qui, invece, non hanno tempo, nemmeno per l’elemosina. Una volta giunti nei centri di prima accoglienza del PalaNebiolo o della caserma Gasparro, che possono contenere rispettivamente 250 e 200 persone, vengono immediatamente trasferiti.Marano concorda che uno dei punti cruciali è dato dal trattato di Dublino, che impone di prendere le impronte digitali e richiedere il permesso di soggiorno per richiedenti asilo o rifugiati nel Paese dell’Unione Europea in cui si arriva. I migranti, quindi, sbarcano in Sicilia e finiscono nei Cara (Centri d’accoglienzaper richiedenti asilo), nei Cie (Centri di identificazione ed espulsione), nei Cpa (Centri di prima accoglienza). Ma il loro desiderio è quello di andare altrove. Per questo viene chiesta la revisione del trattato: «E’ inconcepibile che restino dove non vogliono: questa situazione crea criminalità, dà vita alla tratta degli schiavi».Strategica sarebbe l’apertura dei canali umanitari. «Non è populismo – precisa l’assistente sociale – permetterebbe di trasferire i migranti direttamente nei Paesi che hanno scelto per il proprio progetto. Inoltre, salverebbe uomini, donne e bambini, togliendo la “merce” alle organizzazioni criminali. Non dobbiamo abituarci a gente che scappa dalla guerra, dalla disperazione. La Siria era un posto normale, come il nostro, fino a qualche tempo fa».Dal 2013 bisogna fare i conti con «un nuovo fenomeno che si chiama minori stranieri non accompagnati». E la carenza di strutture è uno dei nervi scoperti: «Mancano Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati, ndr), case di accoglienza, strutture per minori», fa presente. Il Comune avrebbe dovuto partecipare ai bandi pubblicati di recente ma non l’ha fatto: «C’è una scarsa copertura del fondo di finanziamento economico per gli Sprar. Le condizioni di accoglienza nella maggior parte dei centri sono inadeguate. Ci vorrebbero programmi di salute mentale per i più vulnerabili. Occorrerebbe dare assistenza sul piano sociale e scolastico ai ragazzini. Nei Cpa, spesso, invece che essere seguiti, trascorrono il tempo in attesa di essere condotti in uno Sprar o in una comunità. Messina è una delle poche eccezioni. Qui vengono iscritti tutti a scuola, seguono laboratori, mentre tutori e operatori svolgono un grosso lavoro, a tutela dei loro diritti, occupandosi delle pratiche per i documenti».Secondo Marano, che segue i minori dal 2013, si avverte la mancanza di una rete: «Ci sono persone competenti, grosse potenzialità, ma l’ideale sarebbe creare una rete tra associazioni, tra figure professionali. Non c’è un coordinamento». Per favorire l’integrazione sociale, scolastica e lavorativa, l’ex esperta di palazzo Zanca pensa pure a sportelli di orientamento come quelli creati a Palermo e Catania: «Non bisogna mai stancarsi di promuovere la presa in carico e il sostegno continuativo».Altra criticità si registra al momento degli sbarchi: «Può verificarsi un errato riconoscimento, con minorenni che si dichiarano maggiorenni e viceversa. Per questo, al molo, occorrerebbero équipe multidisciplinari, formate da esperti (avvocati, psicologi, assistenti sociali e mediatori preparati, che conoscano il fenomeno migratorio), che aiutino nell’identificazione e nel dialogo. Questa è gente che arriva da contesti e violenze diverse. Dovrebbe essere ascoltata in maniera adeguata. Ai minori si dovrebbe far capire che, dichiarando la loro vera età, entrerebbero in un sistema di tutela».Da non trascurare, è opinione di Marano, il problema della promiscuità nei Cpa: «Bambini e donne sono categorie protette, vulnerabili, e in quanto tali soggette a violenze, anche sessuali. Non devono stare là. La competenza, come prevede l’articolo 403 del codice civile, spetta alla pubblica autorità, al Comune. Lo dice tutta la normativa vigente, dalla convenzione Onu sui diritti dell’infanzia, del 1989, recepita in Italia con la legge 176/91, al Testo unico sull’immigrazione e alla Costituzione».Sui rischi derivanti dalla promiscuità, è più cauta Restuccia: «Al PalaNebiolo ci sono state solo donne siriane ed eritree, che sono state portate via subito. I minori ci sono stati fino allo scorso novembre perché il Comune non era in grado di sopportare gli oneri economici del mantenimento e il ministero dell’Interno ha finanziato l’apertura del centro Amhed, da 150 posti, nei locali dell’ex Ipab Conservatori Riuniti, in via Sacro Cuore. Al momento ospita solo i maschietti, le femminucce sono state portate in altri centri. Però siamo vicini alla saturazione. Pochi giorni fa, a Roma, durante una riunione sul piano nazionale anti tratta, è emerso che tutte strutture sono al collasso, non solo quelle per minori».Restuccia viene allertata dalle autorità in caso di soggetti per cui si teme sia avvenuta una violenza sessuale lungo il tragitto, o per chi denuncia gli scafisti e necessita di un piano di protezione sociale: «Alla Gasparro abbiamo dato assistenza a una donna stuprata in Libia. Al PalaNebiolo, l’estate scorsa, a un ragazzo del Mali che si è scoperto essere malato terminale di cancro e che purtroppo è morto».L’associazione è costretta a funzionare con gli stessi operatori di sempre, a fronte di casi 40 volte più frequenti a partire dall’ultimo anno e mezzo: «All’interno dei progetti siamo una quindicina. Gestiamo l’unità di strada a Catania, l’assistenza ai senza fissa dimora, la comunità di accoglienza, le attività su Messina. Alle donne cerchiamo di dare un’adeguata informativa sulla riduzione del danno, sui posti per loro più sicuri. E spieghiamo quali sono i loro diritti sanitari di base».