Emergenza Coronavirus e l’ignoranza che genera razzismo
In questi giorni concitati, dove le uniche notizie riguardano la diffusione del coronavirus ed i suoi effetti collaterali sull’economia del paese, siamo ritornati a Messina per monitorare la situazione dell’hotspot e del CAS presenti all’interno della ex caserma Gasparro, che da ieri sono utilizzati come luogo di confinamento forzato e quarantena dei migranti soccorsi dalla Sea Watch III.
Ma prima di raccontare gli ultimi eventi, vogliamo fare il punto del nostro monitoraggio avvenuto “in condizioni ordinarie”, cioè prima dello sbarco e della quarantena. Ovviamente, i nostri continui monitoraggi possono solo effettuarsi fuori dalla struttura, parlando con gli ospiti del centro e con gli attori esterni che continuano ad occuparsi delle vicende legali del centro, in quanto non viene autorizzata una visita all’interno dei due centri dal 2016.
Le criticità dell’hotspot e il cambio di gestione del CAS
Per quanto riguarda la parte hotspot, continuano i disagi per i nuovi arrivati. Ci viene segnalata la mancanza totale di qualunque servizio di prima necessità: non vengono forniti vestiti, pannolini, prodotti per l’igiene personale. Non sono presenti i servizi di mediazione linguistica, e non viene fornita l’informativa legale, né è facile accedere a medicinali e cure specifiche.
Siamo costretti a segnalare che, nonostante le denunce pubbliche e le lettere inviate alle autorità, niente è cambiato e niente sembra poter cambiare nella gestione del centro di prima accoglienza presente all’interno della struttura.
La durata media di permanenza all’interno dell’hotspot si allunga sempre più:trascorrono anche diversi mesi prima di essere semplicemente spostati dieci metri più in là, all’interno del CAS, diviso dall’hotspot da una semplice staccionata.
Il CAS, che prima era affidato alla cooperativa Medihospes, adesso è passato alla stessa organizzazione che gestisce l’hotspot, la trapanese Badia Grande, di fatto unificando la struttura da un punto di vista gestionale. Il bando, che ha visto vincitrice la cooperativa trapanese, ha ribassato i costi di gestione di circa il 18%.
Badia Grande è una di quelle cooperative che della migrazione ha fatto il suo principale introito, gestendo nel tempo l’hotspot di Lampedusa, il CIE di Milo, vari altri CAS tra Trapani e Palermo ed il CARA di Mineo nell’ultima fase prima della chiusura. Si tratta di strutture di cui negli anni sono state più volte denunciate e raccontate le carenze nella gestione dei servizi e le spesso cattive condizioni di accoglienza.
Con il cambio di gestione dell’hotspot, adesso ci viene riferito un peggioramento delle già carenti condizioni della struttura. Ci viene raccontato che se prima – quanto meno – fossero presenti alcuni operatori, adesso ce n’è uno solo, incapace di parlare una lingua diversa da quella italiana.
Le ridistribuzioni e il labirinto burocratico
Fino a prima dell’emergenza coronavirus, all’interno della struttura continuavano le interviste effettuate dalle delegazioni degli stati membri disposti a ridistribuire parte dei migranti salvati dalle ONG che effettuano salvataggi nel Mediterraneo.
Data la mancanza di divisone reale della struttura, le interviste venivano eseguite o nell’hotspot o nel CAS, a seconda di quando un determinato stato membro venisse ad intervistare i richiedenti asilo. La Francia, il paese più veloce, li effettua nell’hotspot, la Germania, il paese più lento, nel CAS.
Difatti, in entrambi i casi, i richiedenti asilo aspettano – il colloquio con la delegazione prima ed il trasferimento poi – per mesi. Un ragazzo sbarcato a dicembre con la Ocean Viking, ancora a Messina dopo più di tre mesi, è stato appena intervistato dalla delegazione tedesca senza sapere quando e soprattutto se verrà trasferito. Considerando che le persone sbarcate a giugno 2019 dalla Sea Watch III hanno aspettato più di sei mesi, ci vorrà ancora del tempo.
Non solo, ma la mancanza di una regolamentazione normativa specifica – riguardante le ridistribuzioni – fa sì che ogni nazione abbia una metodologia diversa per quanto riguarda la valutazione della domanda di protezione. La Francia effettua la valutazione della domanda di protezione tramite la delegazione in Italia, e infatti tutte le persone trasferite in Francia hanno ottenuto una protezione internazionale o nazionale, senza ulteriori interviste sul territorio francese. La Germania invece opta per far ricominciare l’intera procedura di asilo all’interno del territorio tedesco e, da quanto ci viene segnalato, con un tasso di riconoscimento molto basso, considerando le richieste come manifestamente infondate (probabilmente a causa della lista dei paesi terzi sicuri).
Ulteriore complicazione riguarda coloro che vengono rifiutati dalle varie delegazioni. Emblematica è la storia di H. un giovanissimo ragazzo della Guinea, arrivato a giugno a Messina, il cui nome non è risultato inserito nella lista di persone da trasferire in Francia. Tramite un accesso agli atti richiesto all’unità Dublino, abbiamo scoperto che nemmeno l’unità Dublino ha contezza di ciò che succederà al ragazzo. Infatti, la sua situazione giuridica appare ancora sospesa, risultando la redistribuzione come ancora pendente, nonostante siano passati mesi dal rigetto della delegazione francese. Probabilmente H. rimarrà in Italia e la sua domanda di protezione verrà esaminata dalla commissione territoriale di riferimento, ma al momento, si tratta di un altro dimenticato dal sistema, confinato in un limbo giuridico senza certezze.
Il coronavirus e la psicosi collettiva
Il diffondersi del virus Covid-19 sul territorio italiano – e la gestione dell’emergenza da parte delle istituzioni – hanno scatenato un allarmismo e un panico collettivo che stanno alimentando e fomentando il clima già fortemente xenofobo che caratterizza il nostro paese.
Effetto xenofobo che arriva a colpire anche gli italiani residenti o in viaggio all’estero, come i 40 turisti fermati alle Mauritius, costretti per ore a restare i quarantena in una sala dell’aeroporto. Alcuni di loro commentano dicendo che sono stati trattati come “profughi”.
Questo commento riflette la situazione in Italia: è considerato normale che un profugo venga maltrattato, rinchiuso in spazi angusti, senza poter ricevere nessun servizio di base, mentre è inaccettabile che un italiano possa anche minimamente subire una situazione similare. Scopriamo solo con il coronavirus cosa significa non poter attraversare la frontiera, essere giudicati solo in base alla nazionalità.
La psicosi collettiva riguardante il virus si mostra anche nel modo in cui vengono trattati i recenti sbarchi della Ocean Viking a Pozzallo e della Sea Watch III a Messina.
Prima il Viminale ordina la quarantena dei 276 migranti all’interno dell’hotspot di Pozzallo e dei membri dell’equipaggio della Ocean Viking a bordo della nave. Nel frattempo, il presidente della Regione, Musumeci, chiede di non autorizzare nessuno sbarco data la mancanza di controlli, nonostante il continuo arrivo di turisti e di siciliani che tornano dal nord via mare e via aereo, in cui i controlli, che sarebbero anche giustificati data l’insorgenza del virus nelle regioni del nord Italia, sono completamente inesistenti.
Come ultimo atto, il sindaco di Messina, De Luca, con un’ordinanza comunale, impone la quarantena all’interno dell’hotspot ai 194 migranti sbarcati dalla Sea Watch, non per proteggerli dal virus che circola in Italia, ma perché considerati come possibili portatori dello stesso, prevedendo addirittura la possibilità di adottare protocolli di protezione nazionale ulteriori rispetto a quelli stabiliti a livello nazionale, “per evitare qualsiasi contaminazione da interferenza con gli operatori addetti all’assistenza”.
Si tratta – a Pozzallo come a Messina – di atti e prassi limitativi della libertà personale e privi di qualsiasi fondamento e giustificazione scientifica. Inoltre, è lo stesso presidente della Regione a sottolineare il fatto che l’ex caserma Gasparro non sarebbe idonea alla quarantena “in quanto sono emerse rilevanti criticità sotto il profilo igienico-sanitario in merito all’accoglienza di nuovi migranti”.
Antonio Mazzeo, giornalista freelance, da sempre impegnato sui temi della militarizzazione della Sicilia e della migrazione, commenta affermando che si tratta di “un sequestro di persona xenofobo decretato dal sindaco di Messina Cateno De Luca a danno dei 194 migranti sbarcati con la Sea Watch”, venendo vergognosamente attaccato da un sedicente funzionario pubblico che lo esorta ad “autoeliminarsi”.
Viene messo in quarantena anche l’equipaggio all’interno della nave, che probabilmente non potrà nemmeno rimanere attraccata al molo Norimberga del porto di Messina, costringendo i 14 membri dell’equipaggio a isolarsi a poche miglia dalla costa siciliana.
Quello che sta accadendo in questi giorni non facili, purtroppo non fa che confermare il fatto che in questo paese continui ad esserci un preoccupante distacco dalla realtà che lo rende vulnerabile e facile preda di qualsiasi pensiero che oggi mette insieme ignoranza, razzismo e sovranismo, i cui effetti hanno – quelli sì – una portata devastante.
Giuseppe Platania
Borderline Sicilia