Vi accogliamo a braccia aperte
La
prima sensazione che abbiamo provato arrivando al Cas “San Marco” di Licata
è stata di imbarazzo, perché fuori dal centro proprio di fronte l’entrata del
palazzo che ospita 68 ragazzi c’è una statua di Gesù con le braccia aperte che
sembra aspettare proprio qualcuno per consolarlo.Al
sol pensare che tutti i giorni questi ragazzi affacciandosi alla finestra
vedano questa statua e non hanno nessuna consolazione “piange il cuore”, come
ci ha detto una signora anziana ferma davanti la statua.
Il
centro è ospitato nella periferica di Licata, paese in provincia di Agrigento e
si trova proprio sulla strada statale SS 115 fuori dal centro storico, situazione
ideale per porre i ragazzi isolati e invisibili alla popolazione che infatti
non ha alcun contatto con i migranti.
Veniamo accolti dal mediatore e dall’assistente sociale della struttura, a
seguito di un’autorizzazione rilasciataci dalla prefettura di Agrigento. Il
palazzo è grande, di tre piani nei quali i migranti sono suddivisi per
nazionalità. Al piano terra si trovano 19 Pakistani, al primo piano 15
migranti provenienti dal Bangladesh e 8
Afganistan (arrivati a dicembre e che soltanto da pochi giorni hanno
perfezionato la richiesta di asilo), mentre al secondo piano la zona è africana,
con la prevalenza di Gambiani e Nigeriani e la presenza di un caso Dublino di
nazionalità maliana (presente in struttura da circa un anno).
A
dispetto del buonismo che pervade la loro accoglienza e delle braccia aperte
della statua, gli ospiti versano in uno palese stato depressivo visto che da
due anni la quasi totalità dei migranti presenti in struttura è bloccata a
Licata, con l’aggravante che tutti hanno avuto il diniego da parte della
commissione territoriale, tranne due Afgani che adesso si trovano altrove.
La
commissione territoriale di Agrigento continua a produrre percentuali di
dinieghi con picchi vicino al 100%, come se l’attività delle commissioni
fossero in gara per accontentare i politici che pretendono “risposte”
escludenti. E i migranti, tanti padri di famiglia, da marzo 2014 sono chiusi in
una palazzina nella provincia di Agrigento, a tormentarsi sul perché della
situazione nella quale si trovano.
L’unico
loro punto di riferimento ( e non per tutti) è il mediatore gambiano che riesce
a fare da tramite con l’ente gestore, dato che gli altri operatori che lavorano
nel centro non conoscano alcuna lingua straniera! Il mediatore è in Italia da
cinque anni e vive anche lui nel centro.
Nel
corso dei due anni di attività della struttura non si sarebbero rilevate grosse
difficoltà, sia perché l’età media degli ospiti è alta rispetto ad altri
centri, che per il tipo di organizzazione interna: una specie di autogestione
“accompagnata”, che vede ad ogni piano una cucina indipendente dove
gli ospiti cucinano autonomamente.
Fa
specie verificare come non ci sia interazione tra i diversi piani dell’edificio:
una specie di ghetto nel ghetto! Lontani dal paese, isolati anche fra di loro.
Questa impostazione ha giovato nel tempo all’ente gestore dato che le lamentele
e le richieste si sono sempre limitate all’abbigliamento, all’assistenza
sanitaria e ovviamente ai documenti.
Secondo
l’assistente sociale tutti i servizi sarebbero ottimi, tranne l’igiene e l’ordine,
a quanto sembra problematici da mantenere. Gli ospiti, dal canto loro, ci hanno
rappressentato alcune difficoltà tra le quali quelle legate ai ritardi
nell’ottenimento dei documenti e quindi all’impossibilità di trovare un lavoro
degno di questo nome. C’è chi ci racconta di essere stato sentito dalla
Commissione territoriale (quella di Enna per smaltire i numeri alti di
Agrigento) sei mesi fa, SEI MESI, e di non avere ancora ricevuto alcuna
risposta in merito alla propria richiesta di protezione internazionale.
L’altro
problema lamentato è sul campo sanitario. A quanto sembra i medici di Licata sarebbero
impreparati ad approcciare culture diverse dalla nostra, impreparazione alla
quale si sommano problemi di mediazione linguistica: i migranti non comprendono
le scelte e prescrizioni dei medici anche perché nessuno spiega loro le prassi
della burocrazia italiana. Così un signore del Bangladesh non comprende perché
a distanza di un anno ancora non viene sottoposto ad operazione chirurgica come
gli era stato prescritto, e un ragazzo nigeriano non si spiega l’attesa di sei
mesi per curare una carie che lo tormenta.
Ma
anche sul servizio di guardaroba tutti i migranti hanno da ridire. A loro dire,
e contrariamente a quanto sostenuto dall’assistente sociale, mancherebbero i
vestiti: “quelli che vedi li abbiamo comprati noi”. Avrebbero
ricevuto abiti soltanto al loro arrivo in struttura, a quanto pare roba usata,
anche femminile. Per dimostrarlo ci mostrano alcuni giacconi, effettivamente
per donna. Anche lenzuola e asciugamani sarebbero stati distribuiti soltanto
all’arrivo, da due anni non avrebbero mai avuto un cambio. In effetti quelli
che vediamo sono unti e vecchi. Anche questa circostanza è stata smentita
dall’assistente sociale, forse con poca convinzione quando le abbiamo fatto
notare le condizioni delle lenzuola.
Ci
è sembrato inoltre che alcune camere da letto siano troppo anguste, con i letti
a castello stipati dentro. Inoltre a detta degli ospiti il wifi (unico mezzo
per comunicare con le famiglie o avere uno sguardo su quanto accade fuori
dall’edificio-mondo) sarebbe troppo debole per tutte le persone presenti.
L’assistente
sociale ha tenuto a precisare che alcune problematiche sono recenti,
conseguenza della fine dei fondi della cooperativa, che la prefettura non paga
da più di sei mesi. Ci sarebbero ritardi nell’erogazione del pocket money e una
riduzione della quantità e qualità della spesa settimanale, che ovviamente
alimentano le insoddisfazione esistenti.
Ma
ciò che è più evidente, ed è una mancanza cronica in qualunque Cas che abbiamo
visitato, è l’assenza di un serio supporto psicologico agli ospiti. Nel corso
della nostra visita tanti dei presenti è rimasto a letto; in pochi sono
riusciti a manifestare la propria rabbia per la situazione che vivono
quotidianamente.
“Sono
venuto due anni fa per guadagnare i soldi per curare i miei figli che stavano
male, ero padre di 4 bambini e due sono morti perché non avevano i soldi per le
cure ed io ho contribuito ad ucciderli visto che non ho mai mandato un soldo
perché non sono riuscito ad avere un lavoro, è colpa mia se oggi non ci sono
più, e ancora da 4 mesi aspetto il ricorso al diniego”. Questo è lo sfogo
di un ragazzo gambiano, che presenta visibilmente un disagio psicologico molto
forte, e che senza il supporto di uno specialista certamente è destinato ad esplodere.
Solo
pochi lavorano nelle campagne limitrofe, per 20 euro al giorno, sfruttati dai
contadini che passano davanti la struttura contenti di avere una manodopera a
basso costo e senza grosse pretese.
Questa
situazione al Cas San Marco di Licata è figlia di una politica criminale, di
una politica che oggi spinge la Commissione territoriale di Agrigento a diniegare
anche minori non accompagnati, donne in stato di gravidanza. Ma quale criteri
vengono usati? Alcuni operatori dei Cas della provincia ci raccontano che il
membro dell’Unhcr in Commissione territoriale sarebbe spietato e senza umanità.
Borderline Sicilia continuerà a seguire questi casi, di una gravità inaudita e a
chiedere spiegazioni ai responsabili delle violazioni e degli abusi.
Non
c’è pace per i migranti; neanche i minori si salvano in questa giungla. Alcune
comunità chiudono per mancanza di fondi, altre invece aprono, come il nuovo centro
per minori non accompagnati sorto al Villaggio Mosè (Agrigento) dove ormai insistono
ben cinque strutture dedicate. Altre ancora riaprono dopo denunce e controlli.
Situazioni gravi ed incomprensibili che si ripetono in tutti i territori.
Ad
Agrigento non ci sono più professionisti disponibili a ricoprire l’ufficio
di tutore per una serie di incomprensioni tra cittadini volontari ed
istituzioni, con la conseguenza che le tutele
vengono affidate agli operatori dei centri, i quali a loro volta
nominano gli avvocati convenzionati con le strutture dia accoglienza, con
conflitti di interessi altissimi e una violazione dei diritti spaventosa. Si sta riproponendo un sistema che pregiudica
la tutela del minore e che sembrava da anni sorpassato, e che alimenta glia
allontanamenti dalle comunità.
Anche
i nuovi arrivati subiscono le difficoltà di un sistema fallimentare.
Nell’hotspot di Lampedusa si contano più di 300 persone già da settimane
che non vengono trasferite anche per le cattive condizioni del mare. Villa
Sikania, che dovrebbe operare come hub per favorire i ricollocamenti (che
non avvengono perché in Sicilia non arrivano da tempo né siriani né eritrei,
gli unici che possono accedere alla procedura), ad oggi ha al suo interno più
di 200 persone collocate “temporaneamente” per fronteggiare la perenne
emergenza, destinati a permanere per settimane prima di venire trasferiti nei
Cas di tutta Italia.
Situazioni
di non accoglienza che si replicano perché ciò che interessa non è certo la
persona, ma l’odore dei soldi. Eppure basterebbe poco, pochissimo, come ha
detto un nostro nuovo amico che ci ha accompagnati fino alla statua del Cristo
a braccia aperte e che ci ha salutati con queste parole: “Dopo quasi due
anni forse riuscirò a dormire perché è la prima volta da quando sono qui che
viene una persona da fuori, una persona che ci chiede come stiamo e come
viviamo; ci hanno chiuso qui dentro e la gente che raramente passa da questa
strada a malapena ci saluta e ci guardano come fossimo tanti animali in
gabbia”.
Alberto
Biondo
Borderline
Sicilia Onlus